Nella Sicilia d’altri tempi il canto sembrava innato in ogni persona; infatti, cantavano un po’ tutti: l’artigiano nella sua bottega, i ragazzi per strada, la casalinga mentre tesseva o accudiva alla casa. Si cantava per allegria giovanile, ma anche per dimenticare i guai della vita o per “allianarisi” (per divertimento), poiché la vita allora presentava pochi svaghi. Chi cantava era sempre il popolino, sia pure oppresso dal lavoro pesante e dai mille problemi quotidiani da risolvere. Si cantavano canzoni popolari già note, spesso composte da contadini poeti sul posto di lavoro. Non esisteva nulla di scritto per l’analfabetismo molto diffuso fra la popolazione. I canti erano trasmessi oralmente da padre in figlio. Mi fa piacere ricordare che le canzoni siciliane di quei tempi avevano una melodia arabeggiante; certamente la lunga dominazione araba in Sicilia aveva lasciato una traccia indelebile anche in questo campo. Nel libro “Il Gattopardo” l’autore, Tomasi di Lampedusa così scrive: – “…cantavano alcune strofe della ‘Bella Gigogin’ trasformate in nenie arabe, sorte cui deve assuefarsi qualsiasi melodietta vivace che voglia esser cantata in Sicilia”. Intorno al 1800 sorse fra le persone del basso ceto sociale un genere di canzone chiamato “ciuri”. Si trattava di stornelli d’amore in cui era invocato, come simbolo, un fiore. Quando si trattava di un amore desiderato ardentemente, ma contrastato o sfortunato, si citava generalmente il fiore d’arancio, di gelsomino o di rosa rossa; quando si trattava di un amore andato male, con sentimenti di fiero odio e disprezzo, si citava il fiore d’aloe o di canna. Molto sentimentale e folcloristica (oggi diremmo) era la serenata al chiar di luna, nata dalla voce calda e giovanile dell’innamorato, che si levava nella notte verso il balcone della sua bella. Erano canti d’amore ricchi di lusinghe e sentimenti avvolti dal fascino della musica, complice il silenzio della notte; spesso a cantare non era l’innamorato in persona.Si cantavano canzoni d’amore anche in campagna in occasione della vendemmia e della raccolta delle olive, con canti collettivi o di solisti con voce tenorile per farsi notare dalle ragazze presenti. Eravamo in piena civiltà maschilista, quando la donna non aveva diritti ma molte limitazioni nella società. I due romanzi: “padre padrone” di Gavino Ledda e un “delitto d’onore” di Giovanni Arpino sono ambientati in quel periodo storico, molto duro per la donna. Anche attraverso le canzoni d’amore si nota la condizione di inferiorità della donna. Nella nota canzone “Vinni la primavera” (è arrivata la primavera) si nota la sofferenza di Rosa che, rinchiusa in casa seguendo la morale della civiltà contadina maschilista, guarda attraverso la porta messa a “vanidduzza” (socchiusa) se passa qualche giovane spasimante e sogna e soffre perchè il “Focu d’amuri lu cori m’addumò” (fuoco d’amore il cuore mi ha acceso). In un’altra canzone, “Nicuzza” (Nicolina), lo spasimante promette subito, come promessa d’amore, di sposare la donna amata “Si tu pi zitu ti pigghi a mia iu ti maritu quannu vo tu” (se tu per fidanzato prendi me, io ti sposo quando vuoi tu). Allora ogni promessa d’amore si concludeva col matrimonio. In un famoso brano: “La vinnigna” (la vendemmia) una ragazza innamorata considera la vendemmia come “la staciuni di l’amuri” (la stagione dell’amore), perché, assieme al carnevale, erano le uniche occasioni per una ragazza di allora, di potere uscire di casa e avvicinare un giovane e sperare così nel matrimonio, il massimo che la vita potesse offrire ad una giovane. Per evadere da questa situazione di quasi recluse, le donne aspettavano feste religiose, fidanzamenti, matrimoni e morte di parenti o di amici di famiglia per avere la possibilità di uscire di casa ed incontrare amiche e parenti e potere dialogare. Un proverbio difatti diceva: “li fimmini vonnu o zitaggi o morti o festi fora li porti” (fuori le mura di casa). Un altro proverbio di allora, diceva: “La figghia a diciott’anni o è maritata o la scanni”. Un altro diceva “donna a dicirottu e omu a vintottu”. In pratica, in linea generale, il matrimonio per amore, non doveva esistere. Un proverbio di quei tempi diceva in proposito: “Cu si marita p’amuri, campa sempri cu duluri”. L’amore doveva sorgere dopo il matrimonio; un proverbio, infatti, diceva: “va a lu lettu ca veni l’affettu”. Purtroppo, contro le meraviglie della natura non si può andare, anche allora il fuoco d’amore colpiva i giovani, prova ne sia che un giovane innamorato andava a fare le serenate alla sua bella e “li fuitini” per amore succedevano molto spesso. Inoltre i genitori comprensivi, c’erano anche allora e i matrimoni d’amore esistevano lo stesso. Per una ragazza, l’unico scopo della vita era il matrimonio ed avere tanti figli; perciò, spesse volte, essa passava le sue giornate a prepararsi il corredo ed a sognare il principe azzurro. Il matrimonio era ancora considerato da tutti sacro ed indissolubile e gli sposi si recavano al matrimonio con un gran senso di responsabilità.
Vito Marino