Credo che conoscano tutti una persona che è partita da Partanna per andare a Milano. E ha fatto bene: essendo un po’, come dire?, “desueto”, forse solo un po’ bizzarro, rischiava di fare la fine dello scemo del villaggio, sotto i dardi malevoli di quelli di lu “pedi di pignu”. Credo che molti sappiano come la sindrome del paranoico sia per metà colpa della “vittima” e per l’altra metà di gente che fa dell’intelligenza cognitiva “COMUNE” una discriminante. Aveva (ha) un nome che non corre: marcia. Al participio presente. A chi gli chiedeva nei suoi ritorni al nostro paesello dove abitasse, rispondeva: a Milano. E a chi, insistente perché il sogno di ogni partannese che si rispetti è quello di far “scippare” l’altro, domandava: a Milano? In che via? E lui rispondeva incavolato: Ma che via e via! Io abito in CORSO Lodi. Per via e via non me ne stavo a Partanna! Ridete pure. Ma non potrete dargli torto. I nomi delle nostre vie non sono un modello di fantasia o di immaginazione. Nella zona vicino alla Grazia abbiamo Via Napoli, via Torino, via degli Abruzzi, via Genova. Domanda: si crede che così i nostri ragazzi possano imparare la geografia? Da maestro elementare dico no: i bambini si confonderanno perché loro per imparare lo fanno secondo un processo di genus et differentiam. E Così Torino diventa capitale degli Abruzzi, e via Napoli confina con via Palermo per la famosa legge dell’apprendimento che parla di contiguità. Altro esempio: via Mazzini che confluisce in via prima – ai tempi del fascismo – via IMPERO del popolo e dopo la liberazione si è tolto impero, ma sempre una via fascista rimane. Il bravo Bano Pellicane ha tentato di “riscoprire” le ragioni delle vie più belle. A lui l’invito di continuare in queste ricerche che ci fanno scoprire non solo le radici, ma l’operosità dei partannesi di una volta (via dei polverai, vicolo battumari, ecc. Per non parlare delle vie del Camarro: pochi sanno di abitare in via Pirandello, meno ancora sa chi abita in vie sconosciute.
Alle vittime della mafia sono dedicati i “Larghi” che sono stretti: nomi dati così per tacitare la nostra coscienza antimafia che è tutta da costruire. Ma ci sono luoghi che oltre al danno hanno subito anche la beffa. Chi si ricorda della Vanedda “cacata”? Era – nella povertà di allora – l’intrigo di vicoli più belli del mondo. C’è nato mons. Crociata che, se anche non condivido le sue idee piuttosto retrive, è la dimostrazione di ciò che cantava Frabrizio De Andrè: dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior”. Gli avvoltoi della ricostruzione per allargare il proprio spazio hanno distrutto – di più, cancellato, – quella via cacata che solo un genio come Dedalo avrebbe potuto progettare e che solo un prepotente più cattivo di Attila avrebbe potuto distruggere. Meglio i garage, i box, i sotterranei che le vacche, i muli, le capre? De gustibus. Dormire fra i piedi delle bestie – ALLORA – era l’unico modo per riscaldarsi. Quel cortile lunghissimo, pieno di ramificazioni, di strettoie dove un carretto avrebbe fatto fatica a passare, pieno di case contigue che si sorreggevano l’un l’altra e che tra le stanze avevano le stalle – si dormiva e ci si scaldava tra i piedi delle bestie – e in quel cortile, fuori camminavano muli e asini che portavano al lavoro, nei campi, nei feudi, i villani, gli uomini che lavoravano da suli a suli. La chiamavano “vanedda cacata” appunto per questo. Vista dall’alto sembrava una teoria di tegole – i “canali” d’altri tempi – che procedeva come un irregolare formicaio. E si lasciò che gli avvoltoi si facessero da sé il proprio piano regolatore e la propria casa, il privato a spese del pubblico, come sempre a Partanna. Le case contigue furono trasferite al Camarro, la zona piena d’acqua dove tutti i profughi e i deportati potevano trasformarsi in rabdomanti. Scelte di quel’Amministrazione che aveva in odio tutto ciò che è ricordo, memoria, rispetto, lealtà, bellezza. Qualche baciapile che ha permesso (favorito?) la distruzione della magia dei cortili, nascondendola in cretti di cemento, l’infanzia di chi è stato costretto ad andar via, la disperazione muta di chi ritorna e trova la sua casa fagocitata dai politici Commettevano un solo peccato i responsabili, il più grave, il più partannese dei peccati: il peccato di omissione, visto che il peccato di concorso in associazione mafiosa non era ancora previsto. Forse anche il Padreterno amava i cortili di Nakona – i più belli d’Europa come venivano definiti in libri di geografia non sospetti – che questo o quell’Assessore, che questo o quell’ingegnere avevano fatto distruggere, malgrado anche Dio riposava il suo sguardo sulla “vanedda cacata.” E la vanedda cacata come era ombrosa e fresca d’estate, doveva averla progettata – come ricordato – Dedalo in persona. E se qualcuno allora che avesse voluto distruggerla, avrebbe dovuto possedere lo stesso genio, la stessa capacità di creare una bellezza senza tempo capace di creare un tempo pietrificato e vivo. Non si capì (non si capisce?) che le “cose” non solo hanno la vita che noi gli diamo, ma hanno una vita propria, non sono “oggetti”, ma visioni, ricordi, mille fatti, mille vite: viuzza dentro viuzza che portava ad altra via ad altro sentiero, dove potevi perderti per gioco dentro vie così strette che mai nessun’auto avrebbe potuto profanare: e quel sole a spicchi ci giocava di giorno un po’ a mosca cieca, un po’ a nascondino. Era una casa la vanedda lunga, interminabile, capricciosa, tortuosa, e le case che conteneva, contenevano tutto all’affaccio, dove l’intimità rompeva gli argini per mostrarsi fuori. Mostrava il viso, la vanedda e anche il suo dorso. Ora la vanedda cacata è un ricordo, è orfana, con un nome da trovatello: vicolo caprera.
Res ipsa loquitur. No. Non parlerà più a nessuno la vanedda. Il suo posto è stato occupato da ignobili bellezze inflazionate di cemento. E dentro quel cemento sepolta col calcestruzzo la bellezza è morta. Saltino fuori i responsabili: dedicheremo loro una via. La via della merda. La via dei merdosi. Seguono nomi e cognomi.