CASTELVETRANO – Il contadino vissuto in seno alla civiltà contadina, pur lavorando più di ogni altro lavoratore, guadagnava di meno ed era classificato all’ultima fascia della scala sociale. Essendo analfabeta per motivi economici e culturali veniva appellato con termini poco lusinghieri: “zuardu, testa di sceccu, testa di lignu, viddanu, panturru, zurbu”. In realtà, nonostante l’analfabetismo, fra i contadini esisteva una ricca letteratura formata da “cuntura” (racconti), poesie, canzoni popolari, proverbi. Tutta una cultura orale che si era arricchita attraverso i secoli e si tramandava oralmente da padre in figlio. C’erano dei contadini, poeti dialettali, che sapevano improvvisare poesie.
Numerosissimi erano i racconti, che si menzionavano come massime educative nel corso delle discussioni.
Attraversi i lunghi anni della mia esistenza ho avuto possibilità, di ascoltare e memorizzare i racconti di mia nonna e di anziani contadini. Onde evitare che questi racconti, alcuni dei quali di provenienza antichissima, scomparissero nel nulla, ne ho trascritti direttamente in lingua siciliana 120, che spero di pubblicare.
Con la sua cultura ed il suo animo generoso, il Siciliano ha insegnato al mondo, bagnato dal sangue degli odi razziali e religiosi, cosa significa la pacifica convivenza e il rispetto fra genti di diverse razze e religioni. Questo insegnamento continua più che mai ai nostri giorni in maniera veramente silenziosa: in questa terra di Sicilia, ricca soltanto di disoccupazione e sottosviluppo, c’è sempre posto per i nostri fratelli immigrati dal terzo mondo, che rischiano la loro vita, per cercare qui quel lavoro e quel rispetto per la persona umana, mai trovato nella loro patria.
Nessuno di noi si è mai permesso di pensare lontanamente o di dire: “Buttiamoli a mare” oppure “usiamo la legge nazista!” (come invece hanno detto, in questi ultimi anni, certi uomini politici).
Il popolo siciliano nel corso della sua storia ha subito ben tredici dominazioni straniere, tuttavia non si è fatto sottomettere culturalmente. Anzi, da questi popoli ha saputo acquisire il meglio della loro civiltà, selezionando quelle conoscenze che si confacevano alla sua cultura dotta e popolare. Infatti ha saputo conservare la propria identità che comprende l’intelligenza, la diffidenza, l’umorismo, l’arte di arrangiarsi; come pure non ha perso il senso del valore per la famiglia e dell’onore, l’amore e il rispetto per i morti, per gli anziani, per i genitori, la sacralità per l’amicizia, il senso della cavalleria per le donne. Si tratta di un ricchissimo bagaglio di comportamenti che si porta dietro da secoli e nessuna dominazione straniera ha potuto intaccare.
Nella storia spirituale plurisecolare della Sicilia si trovano le radici dell’animo popolare; in essa si scoprono fantasia e realtà, mondo pagano, musulmano e cristiano, superstizioni e scetticismo, volgarità e cavalleria, l’attruvatura e il fatalismo, mondo antico e mondo moderno: tutto un mondo culturale amalgamato e fuso insieme che costituisce il folclore della Sicilia, inteso non come un’attrazione turistica o come un elemento ornamentale, ma il modo di vivere stesso della popolazione.
Ascoltando i nostri canti popolari e quelli dei carrettieri si sente la cantilena dei canti arabi, rimasta per tanti secoli nella nostra cultura
Il senso della cavalleria, uno dei sentimenti più delicati che ci caratterizza, è stato portato dai Normanni e si è fortemente radicato nel nostro animo. L’opera dei pupi, il canto del carrettiere e del cantastorie, la recita del “cuntastorie”, le scene cavalleresche raffigurate con decorazioni artistiche nei carri siciliani, sono altri esempi della civiltà lasciataci dai normanni e ben assimilati dai nostri avi. Il ricordo delle lotte sostenute dai normanni contro gli arabi è tuttora vivo nell’annuale combattimento che si svolge per la festa della Madonna delle Milizie a Scicli o per la festa dell’Assunta a Piazza Armerina o per quella del Taratatà che si svolge a Casteltermini in occasione della festa di Santa Croce.
I discorsi dei siciliani erano fatti in rigoroso dialetto del posto e composto di poche parole; si usavano moltissimo i proverbi, le metafore, “lu pizzicuneddu” (il diminutivo e il vezzeggiativo), e le frasi idiomatiche. Molto espressiva, ad esempio, era la frase: “Si iuncìa la testa cu li peri” (si univa la testa con i piedi – si piegava in due) per dire che soffriva di un forte dolore allo stomaco.
“Ci voli assai pi sapiri picca” (ci vuole molto per sapere poco); in questo solo proverbio c’è racchiusa tutta la saggezza di un popolo.
Così in ogni discorso od occasione egli citava un proverbio, che calzava sempre a pennello. Spesso nei suoi discorsi, per affermare o negare, si limitava solamente a dire “ora sì” oppure “ora no” o, addirittura, abbassava solamente la testa o l’alzava dicendo “nzu”.
Egli, inoltre, a causa dell’analfabetismo e dei pochi vocaboli a sua disposizione, per farsi capire più facilmente si aiutava molto con i gesti delle mani, con la mimica del viso e, principalmente, con gli occhi. Questi occhi vivi, intelligenti e scrutatori hanno impressionato E. De Amicis che, nel suo libro “Ricordi di un viaggio in Sicilia”, così cita testualmente: -“…così profondi, così acutamente scrutativi, così pieni di sentimento e di pensiero…”.
La gestualità era sorta in un lontano passato anche per la necessità di comunicare con i numerosi popoli del Mediterraneo, diversi per lingua e civiltà, con i quali allacciava rapporti commerciali, ma anche per farsi capire dai numerosi conquistatori che, nel corso dei secoli hanno occupato la Sicilia.
Noi non ci accorgiamo di questa nostra complessità, se ne accorge chi viene da fuori. Vuiller Gastone, pittore e scrittore francese nel suo libro “La Sicilia” 1897, così scrive: “…finanche i fanciulli si esercitano fin da piccini in questo singolare linguaggio; si pretende che questa abitudine di comunicare per mezzo di gesti cominciasse a Siracusa ai tempi del tiranno Dionigi”.
Il Pitré, che si era fatto amico del Vuiller, parlando della mimica dei siciliani così scrive: “… non pochi viaggiatori si sono meravigliati; dalla più lieve impercettibile vibrazione dei muscoli della faccia, a tutto un movimento del capo e delle mani, questo muto linguaggio esprime sentimenti, affetti, volontà, che sfuggono ai forestieri. Coi gesti si afferma, si nega, si comanda e si ubbidisce, si dispone e si esegue, si prega e si concede, si chiama e si risponde, si loda e si biasima, si carezza e si disprezza fino a comporre interi discorsi”.
Vito Marino