Lu Firraru

CASTELVETRANO – “Lu firraru” era il maniscalco; chiamato così perché poneva i ferri sotto gli zoccoli degli equini. Quando i buoi si utilizzavano per lavorare nei campi, generalmente aggiogati all’aratro, era necessario anche per loro mettere i ferri agli zoccoli, per non farli consumare e per proteggerli dalle malformazioni del terreno. Siccome lo zoccolo del bue è più piccolo, si apponevano “li mezzi ferri”. In questo caso i buoi si definivano “voi a lavuri” (buoi adattati al lavoro).

Siccome i cavalli, a differenza del mulo e dell’asino, sono degli animali che si “appagnanu” (imbizzarriscono) con molta facilità, mentre si applicavano i ferri agli zoccoli, il maniscalco doveva riconoscere gli stati d’animo di questi animali e comprenderne le intenzioni e, quindi, prevederne scatti improvvisi. Quando qualcuno di questi animali era irrequieto o tirava calci; il maniscalco, per farli stare fermi, doveva usare “lu turcituri” (strumento con spago, che stringe il muso provocando dolore).

Il maniscalco forgiava i ferri a forma di U e, ancora incandescenti, li poneva, con lunghe tenaglie a becco d’anatra, sugli zoccoli per modellarli. Ricordo ancora l’odore acre dell’unghia bruciata, che esalava in quel momento. Quindi, fissava il ferro sullo zoccolo con chiodi di ferro dolce e, infine, cospargeva l’unghia di grasso, per renderle più morbide.

Oggi esistono ferri fatti di gomma, plastica, cuoio o di un laminato composto di queste sostanze, inchiodato o incollato allo zoccolo. Alcuni ferri specializzati sono fatti di magnesio, titanio o rame.

Siccome lo zoccolo protetto dal ferro continua a crescere senza consumarsi, ogni 40 giorni circa è necessario pareggiarlo, cioè accorciarlo manualmente; se ciò non avvenisse gli equini si troverebbero con gli zoccoli troppo lunghi che causerebbero problemi alla deambulazione stessa.

I ferri di cavallo che io vedevo mettere, quando ero ragazzo, erano sempre dotati di ramponi, una specie di tacco sporgente in basso all’estremità posteriore, per fornire una maggiore presa sul terreno.

“Lu firraru”, inoltre, tosava cavalli e muli; gli asini restavano col pelo lungo. Allora lo strumento per tosare era manovrato da un ragazzo che girava una manovella; attraverso un filo di trasmissione interno ad un tubo flessibile. Egli, come molti artigiani di allora lavorava all’aperto, lungo le strade o davanti al suo botteghino, una stanza piccola dove conservava l’attrezzatura. Generalmente andava a prestare la sua opera a domicilio. Fra i pochi attrezzi di lavoro che disponeva c’era il banco di lavoro e il cavalletto a tre piedi che serviva per poggiare lo zoccolo, per le ultime rifiniture con la raspa e la lima.

L’applicazione dei ferri è antichissima, poiché ci sono stati alcuni rinvenimenti di epoca romana.

Il maniscalco più bravo, oltre che essere un esperto nella ferratura degli animali da tiro poteva eseguire, sfruttando la sua esperienza, interventi chirurgici di lieve entità, quali incisioni di pustole, cauterizzazione di piaghe, levare spine o altri oggetti appuntiti infilatisi casualmente negli zoccoli. Una volta ho visto “sagnare” (fare un salasso) ad una mula, e come emostatico usare mezza fava secca “spicchiata e munnata” (aperta in due e con la buccia tolta), pressata sul piccolo taglio.

Anche il fabbro ferraio era chiamato “firraru”, perché lavorava il ferro, ma generalmente era chiamato “chiavitteri”, per la sua specialità nel costruire grosse chiavi e serrature che si usavano allora: “li toppi”.

Vito Marino


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