Declina dolcemente verso il mare “la piccola Parigi”. Ma al mare non arriva, quasi timorosa si ritrae per radicarsi nella terra, la sua risorsa di sempre, la sua vera vocazione. Lo constatiamo presto quando qui arriviamo, a Menfi, e ci offrono l’aperitivo, un bianco locale freschissimo che cala dolcezze in corpo, ma anche la sapida coscienza della gente che lo produce, faticando fra le mille insidie del clima e del mercato. Nel vino ritroviamo il mare africano nel quale d’estate ci immergiamo, testimoni di quella bandiera blu che sventola pulizia e orgoglio.
Una mezzadria d’affetti, dunque, tra il mare e la terra. Quella stessa terra che a Portopalo, la frazione marinara più illustre di Menfi, minaccia con passo felpato di danza la spiaggia di sabbia finissima, dove la meraviglia è ancora possibile, dall’antico veliero che salpa alle pecore che brucano un’erba seccagna fin quasi dove le onde si smorzano.
Ma ora noi siamo nel cuore del paese, che si offre con la sua pianta ortogonale a scacchiera, con i cortili acciottolati e la luce a picco sulle case recuperate dopo il sisma del sessantotto. Ci fa da guida la nostra curiosità: domandiamo non per sapere dove si trova tal posto, ma per ascoltare ogni inflessione di voce; è così che nelle vie silenziose del centro cogliamo uno sguardo diffidente di vecchio, una smorfia curiosa e disarmante di giovane. Bella e tranquilla è la Via della Vittoria, dove si aprono i bar, i circoli, i negozi più eleganti e quelli dei cinesi. Qui, noi adolescenti ancora imberbi, ci illudiamo di incontrare la Giusy Buscemi, la nostra miss Italia in carica, e di perderci nei suoi occhi che hanno tutti i colori di Fiori, l’altro impareggiabile lido di Menfi. Ci chiediamo quale affinità di sangue possiamo noi avere con Lei, luminosa bellezza ormai involatasi lontano da questo piccolo ma operoso centro agricolo. Eppure siamo della stessa etnia, come lo è la ragazza che incontriamo davanti a un bar, identica luce di rara bellezza, seppure anonima e presto sparita nel gioco della nostra memoria.
Alla fine della via, a due passi, s’apre la Piazza Vittorio Emanuele III. Grande, signorile, con un belvedere da cui si scorge il luccichio del mare; le fanno da cornice due palazzi, la Chiesa Madre e un moderno torrione squadrato che si eleva sul brandello d’una torre federiciana: è il trionfo del tufo, un miele che cola dal cielo con le mille tonalità dell’ambra dorata. Qui, sulle rovine della colonia saracena di Burgiomilluso, la storia ha sedimentato casali rurali e baronie, feudi e rivolte, sudore e riti pagani. Qui rivive il mito di Inycon, la città sicana famosa nell’antichità per i suoi vini, e un’ebbrezza ci prende, ci conduce in un vortice per le selve di questa terra dove trovarono pascolo anche i piccoli elefanti di cui, seppure spariti, sentiamo ancora i barriti.
Finalmente affrancata dall’invadenza delle città vicine (Sciacca, Castelvetrano), oggi Menfi vive la sua crescita economica senza dimenticare i valori della cultura e della tradizione. Le iniziative dell’Istituzione Culturale Federico II (fra l’altro, l’allestimento di una mostra permanente con due sezioni, archeologica e malacologica) sono un perfetto esempio di valorizzazione delle risorse culturali del territorio.
Con il nostro umore incostante di viaggiatori per caso, entriamo nel Museo, dove ci accoglie, spalancandoci i sensi, la poesia della forma: mille conchiglie del mondo sussurrano i canti di spiagge vicine e lontane e non sappiamo alla fine quale spira di Dio preferire, quale iridiscente madreperla portare all’orecchio.
A nord, verso l’entroterra, con una continuità sorprendente con il vecchio nucleo, si espande il paese nuovo. Da qui vogliamo congedarci con un ultimo sguardo al monumento simbolo della città: il Sole. E’ la calotta di un sole che, rivolto a mezzanotte, non sappiamo se sta per nascere o ritornare nel grembo della terra. E nel dubbio non ci fidiamo; lasciamo decidere ai menfitani, perché qui per noi è sempre luce: è la petite ville lumière.
Andrea Ancona