Comu jucavanu li picciotti

Ad una certa età non si può parlare della propria infanzia, senza sentire una stretta al cuore, una rabbia mal repressa contro il tempo crudele, malvagio e traditore. Alla mente ritornano echi di cose smarrite: luoghi, visi, giochi, usi e costumi; un mondo del tutto diverso da quello attuale, scomparso per sempre nel nulla. Ai tempi della mia infanzia le strade erano poco trafficate e non asfaltate; il silenzio era rotto dal passaggio di qualche carro, dal rumore di bottega di qualche artigiano, dal canto delle casalinghe nei cortili, dal sonoro raglio d’asino, dal canto del gallo e dallo schiamazzo dei ragazzi nei loro numerosi passatempi a costo zero. I giochi erano sempre collettivi e vi partecipavano i ragazzi del rione con schiamazzi, bisticci, pianti e risate. Fortissimo era il senso di possesso del territorio; quando un ragazzo passava in un quartiere diverso dal suo, era schernito o picchiato dai ragazzi del posto. Per il mio carattere mite non ho mai partecipato a quelle spedizioni punitive, ma un paio di volte ne sono stato vittima riuscendo, per mia fortuna, a scappare in tempo. Ho assistito anche a delle vere battaglie con lanci di pietre e ad altri atti di vero teppismo, sempre per la difesa del territorio. Desidero far presente che eravamo nell’immediato dopoguerra con “picciuttuna” o “giuttuna” (giovinastri) sbandati, che non andavano a scuola, possibilmente orfani, senza una guida sicura, scalzi, magri, con i capelli incolti, con pochi vestiti addosso, logori e rattoppati. Essi portavano per cultura, ma anche per motivi economici, i pantaloni corti anche d’inverno fino anche a 18 anni, con le tasche gonfie di qualche “tortula e filazzata”; spesso, in senso dispregiativo, venivano chiamati “linnari” (uova di pidocchi), erano figli della miseria e della violenza, nati e cresciuti nel terrore della guerra. Nonostante tutto, essi giocavano e “s’allianavanu” (si divertivano) a più non posso, specialmente nel tardo pomeriggio, quando avevano terminato i compiti di scuola o di lavorare “a lu mastru” (apprendista alla bottega d’artigiano). Fra i ragazzi c’era sempre qualcuno “sconza iocu” (che godeva nel rovinare il gioco degli altri), qualche altro “’ngangarusu” (grande, ma con azione bambinesca) o, “attaccaturilla” (attaccabrighe), “pizzipiturru” (presuntuoso e arrogante), “’nguirriusu” (creatore di scompigli) o “vicariotu” (degno della Vicaria, carcere di Palermo); i ragazzi “cchiù fissa, carmuci e mammulini” (meno vivaci, che cercavano ancora la mamma) o “piscia e trema”, erano sempre “cucchìati” (presi in giro) dai ragazzi “sperti” o “figghi di buttana” (per come si diceva in maniera scherzosa a quelli più svegli), per questo i bisticci avvenivano di continuo, con bernoccoli sulla testa, qualche “mercu” (segno, taglio) sulla pelle, “nasu scattatu” (epistassi), pianti e minacce. Quando bisticciavano senza picchiarsi, facendo il segno della croce con la mano destra su quella sinistra, dicevano: – “Sciarra e peri torti e dumani t’agghiorna la morti”- In altre occasioni dicevano: – “Ti ringraziu e ti schifiu, quannu mori ti vegnu a viu”- Quindi aggiungevano: – “Finiu e finau di fari paci”. Tante volte due ragazzi dopo avere bisticciato formavano due gruppi, portando ognuno con sé i propri seguaci; quindi incominciavano a picchiarsi in maniera collettiva. Dopo avere chiarito i loro dissidi in questo modo, tutto finiva lì e ricominciavano a giocare.

Vito Marino


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