La malattia di Alzheimer rappresenta uno dei mali più in ascesa, dal punto di vista percentuale, dei nostri tempi. Si tratta di una demenza progressivamente degenerativa che ha inizio prevalentemente in età presenile (65 anni), i cui sintomi sono la perdita di memoria a breve termine, ma anche afasia, disorientamento, cambiamenti repentini di umore, depressione, incapacità di prendersi cura di sé, problemi nel comportamento. E’ facile capire come questo male, oltre che fortemente invalidante, porti ad un terribile isolamento sociale e familiare. Non è facile prendersi cura di una persona che, nonostante abbiamo amato nella vita, ha dei comportamenti assolutamente distaccati, irriconoscenti ed a volte violenti. Nel corso della mia attività ho incontrato moltissimi familiari che prendevano in carico le terapie ad oggi esistenti, ovvero dei farmaci mirati a rallentare l’inesorabile decorso, usati nei primissimi steps della malattia quando ancora il paziente possiede molti neuroni, anche se poco funzionanti, ma destinati a breve termine ad una inevitabile distruzione (da qui il nome di “demenza”). Ebbene nei volti di questa gente ho purtroppo scrutato grande scoraggiamento, angoscia nei primi tempi….rassegnazione alla fine della terapia. Da queste seppur brevi esperienze si nota un po’ l’essenza della malattia: oltre che gravemente invalidante essa distrugge pian piano, insieme ai neuroni, anche i ricordi, il vissuto in generale, tutto ciò che nella vecchiaia può dare il coraggio di andare avanti ossia le belle esperienze e le belle azioni fatte nella vita. In una parola questa patologia uccide la speranza. Per fortuna la ricerca va avanti, ed oggi si conosce un po’ di più della malattia, dei segnali che possono indirizzarci non dico alla risoluzione ma quanto meno ad una migliore conoscenza. Un grande studio statunitense sostiene infatti che, sebbene la perdita di memoria sia considerata un classico primo segno, alcuni individui di mezza età e giovani anziani possono avere altri problemi cognitivi principali come difficoltà nel linguaggio o nella risoluzione dei problemi. Un quarto delle persone sotto i 60 anni che partecipava allo studio presentava un importante disturbo non collegato alla memoria, sebbene essa fosse ancora di gran lunga il problema più comune. “I primi sintomi cognitivi non legati alla memoria erano più comuni in malati di Alzheimer giovani”, ha dichiarato l’autrice principale dello studio, Josephine Barnes. Ma la notizia più importante arriva da uno studio francese pubblicato nell’ultimo numero del British Medical Journal, secondo cui l’uso regolare di benzodiazepine per un periodo superiore a tre mesi aumenta notevolmente il rischio di sviluppare la malattia di Alzheimer. Le benzodiazepine sono una classe di farmaci psicotropi che agiscono sul sistema nervoso centrale modificando alcuni processi fisiologici. Esse hanno un effetto ansiolitico, miorilassante (rilassante muscolare), ipnotico, antiepilettico e amnesico (causando problemi di memoria). Per evitare querele non citeremo nomi commerciali, bensì principi attivi, tra i quali diazepam, bromazepam, triazolam, alprazolam. E’ noto da molti anni che l’uso di benzodiazepine per oltre un mese porta ad assuefazione, ossia necessità di dosi maggiori per ottenere lo stesso effetto, dipendenza ossia impossibilità di interromperne l’assunzione, e la sospensione può causare sintomi di astinenza, cioè recidiva dei sintomi quali allucinazioni, psicosi, convulsioni, oltre che il tipico malessere generale provocato dall’astinenza in sé. Lo studio di Sophie Billioti Gagee dimostra come le benzodiazepine aumentino significativamente il rischio di sviluppare demenza, più tipicamente Morbo di Alzheimer. Sono state prese in considerazione quasi 9.000 persone di età superiore a 66 anni, seguiti per 6-10 anni, dimostrando come l’assunzione giornaliera di tali farmaci per diversi mesi aumenti il rischio di sviluppare una malattia neuro-degenerativa: una volta al giorno per 3 – 6 mesi aumenta il rischio di malattia di Alzheimer del 30%; una volta al giorno per più di sei mesi aumenta il rischio di Alzheimer del 60-80%. Sebbene in Italia si faccia largo abuso di benzodiazepine, la Francia detiene il triste record di campione del mondo nel consumo di sostanze psicotrope (nel 2012, quasi 12 milioni ne avrebbero fatto uso almeno una volta). In particolare, le benzodiazepine sono spesso prescritte per trattare stress, ansia e disturbi del sonno: tutti sintomi che possono essere curati con metodi alternativi (fitoterapia, agopuntura, meditazione). Inoltre, l’approccio farmacologico è sintomatico, dunque non risolve il problema alla radice, in modo che i sintomi tendono a ripresentarsi dopo l’interruzione del trattamento, a volte in maniera ancora più brusca. Questo porta spesso a prolungare la cura oltre le raccomandazioni delle autorità sanitarie, che indicano un utilizzo prolungato e continuativo di non più di 12 settimane: molti pazienti continuano ad assumerne per anni. I pazienti, nel frattempo, devono essere consapevoli dei rischi connessi con tali trattamenti prolungati e cercare metodi di cura alternativi, per evitare, come è stato dimostrato, di portare alla lenta ed inesorabile distruzione neuronale che purtroppo caratterizza la malattia.
Fabrizio Barone