Quando ero bambino, mia madre mi raccontava che occasionalmente passavano per le strade dei monaci che venivano dalla Terra Santa, avvisando a viva voce: “Va pigghiativi la Santa Figghiulanza, oggi a vintun’ura c’è la prerica a la Matrici”. Non c’è da meravigliarsi se avvisavano in siciliano, poiché agli inizi del 1900 e fino al 1940 circa, in tutte le cerimonie religiose, come le prediche e le varie preghiere, si usava la lingua siciliana. Ricordo che fino agli anni ’50 l’arciprete della chiesa Madre, il colto padre Geraci, nel corso della settimana nelle prediche della messa, usava spesso il siciliano, mentre in quella della domenica oltre a dirla in italiano colto, vi introduceva anche pensieri filosofici, dogmatici, e letterari. Le preghiere ufficiali della Chiesa erano preparate in rima baciata o in assonanza, per renderle più facilmente memorizzabili dalla popolazione quasi del tutto analfabeta.
La Santa Figghiulanza era “la bolla della Terra Santa”, che veniva conservata dal popolo con cura e usata con tanta fede, perché, per come riporta Giuseppe Pitré in “Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano”: “La quale bolla è efficacissima anche nei momenti di pericolo sol che si reciti ‘Sanctus Deus, Sanctus fortis, Sanctus immortalis’”. Si trattava di una stampa sacra alle origini distribuita da frati francescani tornati dalle crociate, in cambio di qualche soldo o bene in natura. Tale pezzo di carta aveva per il popolo siciliano un potere straordinario contro il male, tale che veniva custodito gelosamente come un potente talismano da tirare fuori solo in caso di grave pericolo e necessità, come parti difficili, forte vento e per scongiurare terribili tempeste. La stampa sacra si metteva distesa sopra un tavolo, con qualche lumino acceso e si pregava. Per un temporale l’orazione era questa: “Diu fu omu e formau ‘n autru omu / Dio ni scanza di lampu e tronu. Unu è e unu resta. / Verbum caru factum est”. La sacra immagine, come del resto tutte le cose sacre, quando era consumata non si doveva buttare, ma si piegava e si nascondeva in un fessura del muro oppure si bruciava dicendo: “T’abbruciu comu carta”. Nella “Santa Figghiulanza” era rappresentata l’immagine del volto di Cristo o di quello della Madonna o di una Santa: queste, anziché essere riprodotte sui santini ordinari, lo erano su fogli più grandi. Immagini sacre che i frati, detti monaci di cerca, perché chiedevano la questua davano ai contadini per ringraziarli delle loro offerte in natura, secondo quello che la terra produceva in quel momento.
Vito Marino