di Antonino Bencivinni In periodo natalizio la bontà è d’obbligo. Perfino l’ispettore Piazza ha deciso di soprassedere sul “graffiante” e di ricordare uno dei numerosi episodi della sua vita professionale in cui, più che seguire pedissequamente le regole “ministeriali”, ha fatto prevalere quelle del cuore che in alcune circostanze appaiono più congruenti delle precedenti. Auguri di buone feste a tutti i lettori con appuntamento al 26 gennaio 2019.
Chi o cosa è il Natale?: Le buche innevate di Coli Perino o le buche scassa macchine di Partanna?
Avevo previsto un pezzo graffiante, come tutti quelli che ho scritto in questa rivista mettendoci la faccia. Il Direttore, una persona colta e di buon senso, già tremava e gli amici erano pronti a chiamare il 118 dato che era per la libertà di stampa ma era soprattutto preoccupato per la “sua” libertà. E passare il Natale all’Ucciardone non avrebbe fatto piacere neanche a Totò Riina. E allora decisi di mostrare l’altro lato del mio carattere di giornalista regolarmente iscritto all’Albo dal 1989. Lo so, ho un pessimo carattere: del resto tutte le persone di carattere hanno un pessimo carattere. Ma siamo a Natale. Dove tutti siamo così buoni da preparare la nascita di Gesù già dai primi di novembre: come se temessimo che il nostro Dio potesse nascere prematuro. Non faccio il moralista: ma il Natale prematuro non riguarda Gesù: riguarda i regali, riguarda le scuole, riguarda le ignobili recite cui sono costretti i bambini cattolici e no. Ma lasciamo perdere: il nostro ministro (ex mio collega a Milano che mi ha dato del “collega” non avendo mai vinto un concorso, cui risposi: “collega lo dici a tua sorella!”) ha detto che basta imporre il Crocefisso nelle aule e tutti i musulmani si convertiranno e disinnescheranno le bombe). Mah…
Dunque. Racconto di Natale:
Per il mio lavoro sono stato costretto ad andare in giro per tutta Italia, dalle grandi città ai piccoli paesi magari innevati e in cima a montagne maestose che solo ai turisti sembravano tali: ricordo Coli Perino in quel di Piacenza dove gli abitanti erano 4 gatti (meno degli amici al bar di Gino Paoli) e si riunivano nell’unica bettola del paese sotto cui correva un fiume, che oltre ai detriti trasportava cadaveri di suicidi che oscurati negli occhi e nell’animo di gente che voleva vivere en plein air e viveva invece nascosta suo malgrado nel buio perenne delle montagne. Il Miur mi ci aveva mandato per chiudere una scuola che ormai aveva pochi alunni e che la razionalizzazione non poteva tollerare. Ma la scuola era l’unica alternativa alla bettola. Si trovava in un palazzo che aveva conosciuto tempi migliori, con tante aule che lentamente venivano disertate fino a rimanere vuote. Entrai dal portone: nessun bidello. Cominciai ad aggirarmi per quei corridoi fatiscenti che erano – come dire? – ancora impregnati di tutte le generazioni di ragazzi che lì avevano soggiornato per cinque, sei anni. La scuola ha queste caratterisiche: mentre gli insegnanti invecchiano gli alunni sono sempre giovani o giovanissimi. Sono il ritratto di Dorian Gray degli insegnanti…Ad un certo punto sentii dei segni di vita: in un’aula c’era sicuramente qualcuno. E infatti vidi una scena da libro Cuore. C’era un maestro di mezza età seduto con qualche smorfia di dolore a capotavola e intorno 7 ragazzi: due di quinta, 3 di prima, 1 di seconda e uno di quarta. Tutti a guardare il maestro con accanto un camino enorme e una brace che veniva ravvivata da qualche ceppo che di tanto in tanto poggiava uno dei ragazzi, il freddoloso del momento magari. Tutti si alzarono in piedi per salutarmi anche se non sapevano che io ero l’ispettore della scuola. Con molta gentilezza il maestro mi disse:
– Lei chi è? – Sono l’ispettore – E a me chi lo dice? Lo disse con semplicità, senza lo sguardo indagatore dei montanari che hanno la stessa diffidenza che abbiamo noi isolani. Avrei voluto mostrargli il distintivo come l’ispettore Callaghan, ma odio le pistole e i distintivi. Gli mostrai la tessera ferroviaria rilasciata dal Miur. E si scusò dicendo che lui non era solo il maestro in quel posto là, che non era responsabile solo del loro insegnamento, ma della loro vita. Fuori la desolazione innevata, di alberi che alzavano le mani al cielo in segno di resa. Ma quell’angolo interno di quelle che si chiamavano scuole rurali e nel caso della classe una pluriclasse, mi ricordò una poesia di Brecht, “Il fumo”:
“La piccola casa sotto gli alberi sul lago./ Dal tetto sale il fumo./ Se mancasse/ Quanto sarebbero desolati/La casa, gli alberi, il lago!”.
Già, senza il fumo di quel camino nessun segno di vita. Ed è ciò che sarebbe successo se io avessi accorpato la scuola con il paese più a valle. Il mio animo di maestro elementare (uno dei mestieri più belli del mondo) si ribellò. E mi misi a parlare con i ragazzi di V che l’anno successivo sarebbero dovuti andare più giù verso la valle. Chiesi se abitassero a Coli Perino. Mi risposero di no.
Vi accompagnano i genitori? – No. Loro lavorano. – E voi come fate ad arrivare fin qui? – Con le bici. – Me le fate vedere?.
Mi presero per mano e mi accompagnarono nell’androne dove erano “parcheggiate” le bici, tutte mezzo scassate, ma con delle gomme enormi.
– Noi veniamo dalle varie cascine che stanno qui intorno. – Anche i piccolini? – Anche i piccolini!
Colto da un’idea improvvisa (che nel linguaggio scolastico si chiama “insight” che è come quella lampadina che si accende sulla testa di Archimede Pitagorico negli albi di Topolino) chiesi se c’era una bici anche per me. C’era. Allora mi rivolsi ai due di quinta.
Quanto dista il paese dove l’anno prossimo dovreste andare a frequentare la media? – Dipende – Da cosa? – Se Lei ha le gambe buone. – Proviamo?
Provammo. C’era la neve e sotto la neve c’erano spesso delle buche: ho detto spesso non SEMPRE, il SEMPRE riguarda le buche di Partanna, il paese più BUCATO di tutto il Mediterraneo. Arrivammo. E poi ripartimmo. Senza incidente alcuno e senza avvenimenti degni di nota a parte il mio fiatone. Il maestro ci vide ritornare. Sapeva il motivo per il quale ero venuto. Ma non poteva immaginare la tristezza che avevo nel cuore. Ma era tristezza niente a che vedere con quello spleen esistenziale che provavo tutte le volte al tramonto del sole sulla piazza di Sondrio, il paese più triste d’Italia. Allora c’era un mio collega e amico, Gaetano Matricardi. Seduti da soli nell’unico caffè della piazza, lui mi diceva: – Vito, sai cosa mi ricorda la piazza di Sondrio? – No. – Il cimitero di Vienna. E aggiungeva: Solo che il cimitero di Vienna è più divertente.
Qui, a Coli Perino, un maestro che sarebbe stato – questo sì – “deportato”. Qui dei ragazzi che avrebbero vissuto altrove, giù a valle. Il maestro si muoveva a fatica. Anni di freddo e umido lo avevano ridotto un reumatismo ambulante. Gli avrei offerto la scelta di andare a Pantelleria?. No. Avrei fatto finta di niente. Quel nucleo di sopravvissuti dovevano ancora accendere le luci di Natale. Non solo per quest’anno. Ma per ogni Natale futuro fino a quando la relazione l’avrei fatta io. Avrei fatto finta che era una vera scuola. Si chiama FINZIONE ispettiva. Il resto si chiama Natale.
Vito Piazza