PARTANNA-La lettura di recente di un interessante libro, “Il Presente non basta” di Ivano Dionigi, professore ordinario di Lingua e Letteratura Latina, Presidente della Pontificia Accademia di Latinità, mi ha dato lo spunto per un articolo su che fine abbia fatto, o meglio, su che fine abbiamo fatto fare al latino.
Ai miei tempi gli studi preuniversitari comportavano, tra scuole di 1° grado e scuola di 2° grado (Magistrale e Licei), dai sette agli otto anni di studio del latino.
E oggi? Reso facoltativo e abolito nella scuola media nel 1978, il latino ha via via sempre più perduto quel valore inestimabile di confronto fra culture, di entità in grado di farci comprendere la dinamica dei mutamenti generazionali, le origini della lingua italiana e della lingua di molti popoli divenuti poi, nel corso dei secoli, nazioni con le loro identità sociali e politiche.
Quali possono essere i motivi che ne hanno determinato la rimozione, in un Paese come l’Italia dal patrimonio archeologico, monumentale-artistico, e filologico, documentale-letterario, incommensurabile, invidia e meraviglia per tutto il mondo, di cui il latino ha costituito la lingua, cioè il massimo della testimonianza della vita di un popolo. Se consideriamo che il latino costituì la lingua di un popolo, come quello romano, di indole prevalentemente rurale e bellica e quindi dalla terminologia confacente, c’è da restare basiti dalla capacità di adattamento e di estensione della parola a tutti gli ambiti del linguaggio denotativo e connotativo, attraverso processi di trasferimento e metaforizzazione di significati e di sensi traslati in maniera tale da stravolgere il significato originario, creando prepotentemente nuove forme lessicali.
Come è possibile considerare morta una lingua come il latino che ancora viene utilizzato nel lessico di una quantità incredibile di voci, motti, slogan, gerghi, linguaggi, da quello politico (par condicio, ecc.) a quello medico (ictus, placebo, ecc.), da quello giuridico ( ius, civis, ecc.) a quello economico (una tantum, ecc.), a quello psicoanalitico (transfert, ecc.), da quello mediatico (audio, video, ecc.) a quello informatico (monitor, ecc.), dall’uso maccheronico (porcellum, mattarellum, ecc.) all’uso nel dialetto (come nel nostro l’uso di est al posto di è), per non parlare dell’uso quotidiano, (album, iter, omnibus, lavabo, ecc.,) dei trentacinquemila latinismi circa, censiti da Tullio De Mauro nel suo Grande Dizionario Italiano dell’uso (GRADIT).
Come è possibile considerare morta e reazionaria una lingua come il latino, quando ad essa ricorrono diverse nazioni per sancire con la parola eventi memorabili nel bene e nel male, come “In varietate concordia”, motto scelto dal Parlamento Europeo il 4 maggio 2000 che si rifà al “E pluribus unum”, motto nazionale degli Stati Uniti d’America fin dal 1776. Parigi con “Fluctuat nec mergitur” (è sballottata dai flutti ma non affonda) sancì la propria reazione agli attentati del 13 Novembre 2015.
C’è da chiedersi quanto la rimozione del latino abbia influito sul decadimento della lingua italiana in un periodo, come il nostro, di massima diffusione ed estensione tecnologica dei mezzi di comunicazione, ma di scarsissimi scambi ad effetto comunicativo. (continua)
Tino Traina