PARTANNA – Non poteva mancare nel tesoro di premi accumulato dalla poetessa di Partanna Maria Grazia Alia un secondo posto ex aequo al Premio di poesia “Citta’ di Partanna” per il suo racconto “Panchina vista mare” che pubblichiamo integralmente qui di seguito:
PANCHINA VISTA MARE
Hanno preso tutti l’abitudine di chiamarmi “la panchina delle farfalle”. Dicono che a Luisella piacessero tanto…
Mi sono sempre trovata bene nel posto in cui mi allocarono tanti anni fa, sul lungomare del piccolo borgo, sotto un grande albero piantato qui già da molto tempo prima della mia collocazione. Mi realizzarono in ferro battuto, dalle linee semplici, lavorata con gradevoli particolari arcuati. A dire dei fabbri, che assemblarono con maestria ogni mio pezzo, sarei durata più a lungo con qualche mano di vernice stesa con regolare cadenza per contrastare i segni provocati dall’aria salmastra. Scelsero il bianco per tinteggiarmi. I fiori delle aiuole che avevo accanto avrebbero messo ancora più in risalto il mio candore e il mio essere accogliente; sarei stata un vero e proprio invito per chi su di me cercava posa. E avevano ragione: ero davvero ben fatta, ben posizionata e, dalle tante persone che sin da subito cercarono ristoro su di me, non ero una panchina qualunque; chi sceglieva di sedersi stava comodo, godeva dell’ombra del grande albero durante le calde estati, si riempiva gli occhi dei brillanti colori delle aiuole fiorite in primavera e aveva davanti anche il mare, che, in qualunque stagione, ti rapisce lo sguardo con il suo tripudio di azzurri e con la vermiglia magia dei suoi tramonti. Posso dire di non essere mai stata sola; d’inverno, quando il maestrale sferzava la costa e tutti stavano al caldo nelle loro case, erano il mare e i gabbiani a farmi compagnia. Lo fanno tuttora, fedeli come vecchi amici. Conosco gli umani attraverso le loro storie, che mi hanno emozionato, mi hanno fatto riflettere e talvolta piangere; storie che ancora oggi mi dicono di esistenze sempre alla ricerca di qualcosa. Nel silenzioso gesto di offrire a tutti una corroborante pausa sulla mia seduta ho dato un senso alla mia esistenza. Accogliere tutti mi ha sempre dato un’intima soddisfazione, mi ha reso e continua a rendermi felice. Mi sento utile, apprezzata e amata per quello che sono. Giorno dopo giorno ho condiviso il mio essere confortevole. È dalla condivisione che nasce la felicità. Che sia proprio questo ciò che tutti cercano? Certo, nel mio caso è tutto più semplice; la vita degli umani è molto più complicata. Tra i miei più affezionati fruitori ci sono due coniugi, Gemma e Sergio. Ho visto nascere il loro amore. Su di me, abbracciati, si sono promessi sincero amore, un futuro insieme, di condividere tutto ciò che la vita avrebbe loro riservato, dai momenti belli a quelli difficili. Erano giovanissimi e tanto innamorati. Mi pare ancora di vederli correre sulla battigia, ridere e baciarsi sotto il sole per poi arrivare qui, sedersi e aspettare in silenzio il tramonto. Le parole non erano necessarie: la loro gioventù e il loro amore complice era tutto un fragore. Molte stagioni sono passate da allora, ma loro sono sempre insieme. Sergio, a volte, sembra un po’ preoccupato per gli acciacchi dell’età, per il tempo che passa, ma la moglie lo incoraggia, lo bacia per farlo tacere e gli accarezza la testa divenuta ormai bianca come la spuma del mare. Si tengono per mano come giovani innamorati. Mi fanno tenerezza. Gemma e Sergio avrebbero molto da insegnare ad alcuni.
Ogni tanto arrivavano qui due ragazzi: lei bellissima, dal portamento elegante e con un viso di una dolcezza disarmante, un viso delicato da bambina; lui alto e vigoroso, dallo sguardo profondo e dall’aspetto sempre molto curato. Si vedeva che lei ne era innamorata e pure io pensavo che stessero bene insieme. All’inizio della loro relazione lui le faceva spesso delle sorprese; una volta le diede appuntamento qui, alla panchina vista mare, sotto il grande albero, e adagiò su di me un mazzo di rose rosse. Prima che lei arrivasse si nascose non lontano. La ragazza sembrò gradire le rose, gli corse incontro quando lo vide spuntare e lo abbracciò forte. Mi sembrò un gesto molto romantico. Sapeva stupirla, diciamolo pure, le faceva promesse da fascinatore. Andarono a vivere insieme, ma presto i litigi rovinarono il loro progetto di vita condivisa. Il giovane era malato di una gelosia immotivata e malsana nei confronti della ragazza. Se passavano da qui era un continuo battibeccare: lui le lanciava contro ogni sorta di epiteti, lei piangeva cercando di controbattere alle sue assurse accuse. Il loro era diventato un amore troppo caotico, un rapporto con dinamiche inaspettate e il ragazzo ora mi sembrava avesse qualcosa di malvagio. Vederli litigare e ripensare alla sorpresa delle rose mi faceva avvertire un brivido sgradevole, mi dava una sensazione di dolore per qualcosa di brutto che da lì a breve sarebbe accaduto. Una sera mi capitò di assistere a un loro litigio a cui lui diede subito fine sferrando un pugno dritto in faccia alla ragazza. Lei perse i sensi. Se avessi potuto urlare! La lasciò accanto a me, esanime. La trovarono due passanti, che chiamarono un’autoambulanza. Non li vidi più. Una mattina d’estate, due signore, spossate dal caldo, si sedettero su di me. Le vidi turbate. Parlavano di una ragazza morta per la gelosia del suo compagno; l’aveva finita con numerose coltellate, con una violenza inaudita. Dai loro discorsi capii che erano proprio loro: la ragazza dal viso dolce da bambina e il ragazzo delle rose rosse. L’orribile notizia mi rattristò molto. Dopo alcuni mesi vennero degli operai. Avevano con loro della vernice; mi avrebbero dato una ritinteggiata con un nuovo colore. C’era un tiepido sole, era una bella giornata, nonostante fosse autunno inoltrato. Diverse persone, incuriosite, si radunarono accanto a me e cominciarono ad applaudire quando gli operai finirono il loro lavoro. Ora ero rossa e una scritta sul mio schienale diceva:” L’amore non uccide!”. Fui contenta del mio nuovo colore. Ora anch’io in qualche modo potevo scuotere le coscienze, urlare il mio sgomento e mantenere il ricordo di quella dolce ragazza tradita da chi diceva di amarla. La poveretta credeva di aver trovato la felicità nella vita condivisa con l’uomo che aveva scelto di avere accanto per sempre, quell’uomo che l’affascinava e l’adulava e che divenne invece il suo carnefice. A quella scritta aggiunsero dei disegni raffiguranti delle farfalle e scrissero il nome di quella sfortunata ragazza. Si chiamava Luisella.
Non lontano da me hanno aperto un chiosco di gelati. A primavera e in estate ora c’è un gran via vai di bambini. Si siedono sulla mia comoda seduta per gustare il loro gelato e ammirare le farfalle dipinte sul mio schienale. Oggi sono consapevole di essere diventata un segno permanente di memoria e di speranza, e ne vado fiera. Spero che Luisella abbia almeno giustizia e che tutte le donne che stanno vivendo storie di soprusi e violenze possano trovare il coraggio di cambiare il proprio destino, prima che succeda l’irreparabile. Anche oggi Gemma e Sergio sono venuti a guardare il tramonto. Si tengono per mano. Spero lo facciano ancora per molto tempo. Gemma dice al marito che qui, sulla panchina vista mare, si sente a casa. Poi entrambi stanno in silenzio, come quando erano giovani. La luce purpurea del tramonto avvolge i loro sguardi, li stupisce, ruba loro le parole. Se un giorno finisce con questi colori, la speranza di certo avrà un nuovo mattino. Se parlassi, anch’io in questo momento perfetto sceglierei il silenzio per non dissacrarne l’incanto.
Maria Grazia Alia