PARTANNA – Pubblichiamo oggi, 10 marzo (scusandoci di non averlo potuto fare ieri) a puntate la terza parte dell’opera (la prima è stata pubblicata il 2 marzo, la seconda il 3 marzo, la quarta parte sarà pubblicata domani, 11 marzo, nella tarda mattinata) “SOSPETTO E VERITA’ sui funerali di Rita Atria” del dirigente scolastico in pensione e storico, Antonino Passalacqua, collaboratore di Kleos, in cui l’autore intende “ristabilire” la verità sulla posizione della Chiesa cittadina in relazione ai funerali di Rita Atria svoltisi a Partanna il 31 luglio 1992.
TERZA PARTE
Nino Passalacqua
SOSPETTO E VERITÀ sui funerali di Rita Atria
Edizioni Kleos
Cap. IV
LA VERITA’ DEL PARROCO
Credo sia venuto il momento, alfine, di sottoporre al lettore la “verità” del Parroco. Come in qualsiasi processo che si rispetti, infatti, è necessario, perché si possa esprimere un giudizio di “condanna” o di “assoluzione”, ascoltare le due parti: all’accusa (nel nostro caso si è parlato di “sospetto”), bisogna, pertanto, far seguire la “difesa”, dando la parola a mons. Russo.
Per la verità don Calogero, dopo aver stigmatizzato l’operato di certa stampa ed aver esposto la posizione della Chiesa locale attraverso un comunicato del 15 agosto 1992 dal titolo “A Partanna un marchio immeritato”, per cinque anni ha taciuto.
Unica eccezione a tale linea di condotta è risultata la richiesta a Padre Pintacuda di “rettifica di notizie diffuse a mezzo stampa” (richiesta inoltrata per altro in via privata a mezzo raccomandata postale con avviso di ricevimento) e l’invito verbale ai redattori del foglio cittadino “Onda d’Urto” a fare altrettanto. Richieste di rettifica cui né il gesuita palermitano né i redattori del foglio locale hanno mai dato seguito.
Nel Novembre del 1997, però, è risultato chiaro che si imponeva una presa di posizione forte e solenne in difesa della “Chiesa locale”, per ristabilire la verità dei fatti; una presa di posizione sostenuta con armi adeguate e combattuta sullo stesso piano di chi sembrava avere tutto l’interesse di infangare uno dei pochi aspetti chiari di una vicenda sicuramente complessa. E così il parroco emerito
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della Chiesa Madre di Partanna esce finalmente allo scoperto. Lo fa dapprima secondo uno stile che lo contraddistingue: con compostezza, serenità e fermezza insieme. Affida il suo messaggio ad un ciclostilato definito “Supplemento al foglio “A PARTANNA UN MARCHIO IMMERITATO” del 15 Agosto 1992, per un chiarimento più DETTAGLIATO SULLE ESEQUIE DELLA GIOVANE RITA ATRIA celebrate nel Cimitero di Partanna il 31 luglio 1992” (2)
A tale comunicato farà seguire, poi, una intervista rilasciata al corrispondente provinciale del quotidiano “La Sicilia” di Catania del 7 gennaio 1998.
Non è difficile mettere in rapporto le eccezionali “esternazioni” di padre Russo (noto per la sua riservatezza e discrezione) con la venuta a Partanna di don Ciotti e con le sue “battute”, lanciate durante un incontro con alunni e docenti della locale Scuola Media sul presunto comportamento sprezzante della Chiesa locale in merito ai funerali di Rita Atria, Il prete piemontese con ingenerose frecciatine accusa la chiesa locale di non avere celebrato le esequie per la giovane vittima e si auto-attribuisce il merito di averle celebrate per primo. Lo dimostra il fatto che la datazione del ciclostilato (“Partanna, 26 Novembre”) porta la seguente “sottodatazione”: “ a due giorni dall’incontro di D. Ciotti e della Sig.ra Rita Borsellino con i ragazzi della Scuola Media”.
Seguiamo, ora, i passaggi più significativi di quel comunicato, intitolato “Supplemento”:
“La S. Messa esequiale in suffragio della giovane Rita Atria fu da me celebrata il 31 luglio 1992 nel Cimitero di Partanna e non nella Chiesa Madre per precisa decisione del Maresciallo comandante la Stazione dei Carabinieri di Partanna e dei parenti della defunta, rappresentati dal cognato, sig. Antonio Argento, Maresciallo
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nell’esercito.
Non appena arrivato a Partanna, il furgone recante la bara della giovane fu fatto sostare nei pressi del rifornimento del v.le Papa Giovanni in attesa delle decisioni per le esequie.
La Chiesa Madre era già aperta e pronta per ricevere la bara e per la celebrazione delle esequie. Si attendeva soltanto la precisazione dell’orario. Su invito telefonico del Maresciallo dei Carabinieri, mi recai alla caserma locale, dove trovai anche il Maresciallo Argento. I due avevano già deciso che le esequie si celebrassero non in chiesa, ma al cimitero e in un posto non visibile dall’ingresso. Mi proposero anzi di ritrovarci insieme al Cimitero per la scelta del posto. Cosa che facemmo subito.
Nel pomeriggio, all’orario concordato, io stesso celebrai la S. Messa, in piena osservanza delle norme liturgiche, con l’omelia e con i canti opportuni, come si sarebbe fatto in chiesa …”.
Come si può notare, ci troviamo di fronte ad un comunicato lapidario, privo di fronzoli, tagliente. Una descrizione lucida di fatti, luoghi, persone. Parole ferme, chiare, inequivocabili. Macigni irremovibili. Con nome, cognome e professione dei protagonisti.
Al nostro sguardo si presentano due scenari ben distinti: nel tempo e nello spazio.
Nella mattinata del 31 Luglio 1992 il luogo in cui si svolgono i fatti è la caserma dei carabinieri di Partanna: in essa si muovono tre personaggi, ma nello sfondo si avverte la presenza corale, anche se non visibile, di parenti, amici, giornalisti, fotografi, cineoperatori.
In primo piano il Parroco, che ha espresso la sua disponibilità ad accogliere in chiesa la salma di Rita Atria (“La Chiesa Madre era già aperta e pronta per ricevere la bara e per la celebrazione delle esequie”).
Accanto a lui i rappresentanti dello Stato e della famiglia della defunta, il Maresciallo dei Carabinieri (Angelo Bonfiglio, n.d.r.) e il
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cognato di Rita Atria (Antonio Argento, marito della sorella di Rita), le due persone cui spetta, in definitiva, la decisione in merito ai tempi e al luogo delle esequie: il primo come responsabile dell’ordine pubblico; il secondo come detentore del diritto della privacy familiare. E in queste loro vesti essi decidono che le esequie si svolgano “non in chiesa, ma al cimitero”, e addirittura “in un posto non visibile dall’ingresso”.
Per mettere in atto tale progetto, il Maresciallo Bonfiglio ed il cognato di Rita Atria convocano il Parroco (“su invito telefonico … mi recai alla caserma locale …”) e insieme eseguono un sopralluogo al Cimitero (“per la scelta del posto”). La scelta cade su uno spiazzo della parte antica del Cimitero compreso nel Campo IV, di fronte alla cappella gentilizia n. 14, lontano e non visibile dall’ingresso settentrionale che si apre sulla strada Provinciale Partanna- Castelvetrano, unico ormai da anni, dopo che la porta che dà sulla SS 188 che da Partanna conduce a Montevago è stata chiusa a seguito del terremoto del gennaio del 1968 che ha reso precarie le condizioni della chiesa.
Non è fisicamente presente il “coro”, ma si avverte prepotente la sua ingombrante presenza. In fondo, è proprio per evitare gli obiettivi dei fotografi e dei cineoperatori, gli sguardi indiscreti dei curiosi, le possibili scenate di scalmanati, che viene presa la decisione di fare svolgere il funerale in un angolo remoto del Cimitero.
Nel pomeriggio di quello stesso giorno lo scenario si sposta all’ombra dei cipressi. Qui il Parroco, don Calogero Russo, celebra la Messa, tiene l’omelia, intona i canti funebri: naturalmente “in piena osservanza delle norme liturgiche … come si sarebbe fatto in chiesa”.
In questo caso, pur non essendo espressamente citato, si avverte la presenza del “coro”. Non avrebbe senso, infatti, parlare di “omelia” o di “canti” in assenza di “popolo”: l’omelia presuppone un “popolo in ascolto”; i canti presuppongono un “popolo in preghiera”.
Concludendo, possiamo sintetizzare così la “verità” che don Calogero Russo ha “gridato” al mondo:
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la S. Messa di suffragio per Rita Atria fu celebrata validamente in quel 31 luglio 1992 dal Parroco della Chiesa Madre di Partanna, mons. Calogero Russo;
la celebrazione si svolse all’interno del Cimitero e non già nella Chiesa Madre, di cui per altro era stata offerta la disponibilità, per espressa volontà del Comandante dei Carabinieri e dei familiari della defunta.
E’ forse appena il caso di rivelare che, due mesi dopo la pubblicazione del “Supplemento” del 26 Novembre 1997, mons. Russo prende di nuovo “carta e penna” e scrive a Don Ciotti (4) per esporre la verità dei fatti e per ribadire che nulla è stato omesso per rendere il tributo di fede all’anima di Rita Atria.
Anche in questo caso, però, la sua missiva resta senza risposta. La qual cosa merita almeno due annotazioni.
La prima riguarda il motivo per cui mons. Russo sente il bisogno di scrivere a Don Ciotti. Sembra strano, infatti, che il santo parroco della Chiesa Madre di Partanna si rivolga al suo confratello per chiarire i fatti, dopo che aveva spiegato in cento modi ciò che c’era da spiegare ed essendo perfettamente consapevole che il prete piemontese già sapesse tutto ciò che c’era da sapere. Ma forse la spiegazione della decisione dell’invio della missiva sta in quella frase rivolta a Don Ciotti:
“… e non si insista ancora nel dire che la Chiesa deve chiedere perdono e rimediare al suo operato. Non avrei difficoltà a chiedere, con la Chiesa, perdono: ma a chi e per quale colpa?”.
Segno che ancora qualcuno (lo stesso don Ciotti o l’Associazione Rita Atria?) continuava a diffondere il “sospetto” del “gran rifiuto”. Non si ricorre, infatti, all’invito a chiedere “perdono” se non si è convinti (o se non si vuol far credere di essere convinti) dell’esistenza nell’altro di una “colpa”.
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La seconda annotazione riguarda la mancata risposta di don Ciotti alla missiva di mons. Russo, che fa il paio con la mancata risposta di padre Ennio Pintacuda alla richiesta di emanare una rettifica alla sua affermazione fatta nell’opuscolo “La scelta”.
La qual cosa provoca in me un sorriso amaro che si stempera successivamente in una “uscita” ironica.
La prima riflessione, infatti, che mi viene in mente, dopo l’amarezza, è che i preti professionisti dell’antimafia non siano adusi a riconoscere i propri errori. Ma, evidentemente, si tratta di una riflessione semplicistica e un po’ banale.
Forse, la verità è da ricercare, invece, in una dimensione di natura psicologica.
E allora? Allora, ricalcando l’espressione “delle due, l’una” viene da dire “delle tre … tutte e tre”:
- – Forse la missione a cui questi preti si sentono “vocati”, e per la quale vengono incensati, li fa sentire posti su un piedistallo tanto alto da consentir loro di trinciare giudizi a proprio piacimento senza dover rendere conto a nessuno di ciò che dicono e di ciò che fanno;
- – quando vengono “pizzicati” in fallo mettono in atto la strategia del silenzio, certi che presto o tardi la “bufera” passa e resta il loro “verbo”;
- – di fronte all’evidenza dei fatti, non sapendo come difendersi, tacciono spudoratamente.
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Cap. VI
LE “TESTIMONIANZE” DELLA STAMPA
Restando sulla falsariga di un ideale processo o, se preferite, di una pantomima (ma non troppo!) processuale, la parola spetta, ora, ai testimoni.
Per non far torto a nessuno e per condurre fino in fondo il “gioco” del processo, faremo in modo di chiamare in causa altri testimoni. Non già testimoni a favore dell’accusa o testimoni a favore della difesa, ma testimoni a prescindere, senza alcuna coloritura “politica”, persone, cioè, che hanno assistito ad un fatto e ne fanno fede. Naturalmente, eviteremo di sentire coloro che “sanno” solo per sentito dire, coloro cioè che dicono di essere a conoscenza dei fatti sol perché “informati” da parte di altri testimoni, magari già passati a miglior vita.
E tuttavia dichiariamo la nostra disponibilità a sentire un qualsiasi altro testimone capace di dimostrare il contrario di quanto viene affermato in queste pagine.
E incominciamo dall’escussione di quei testimoni presenti per motivi professionali: i giornalisti.
Passeremo in rassegna, perciò, cinque quotidiani a tiratura nazionale (“La Repubblica”, “La Stampa”, “Il Corriere della Sera”, “L’Avvenire” e “L’Unità”) e due a tiratura regionale (“La Sicilia” di Catania e “Il Giornale di Sicilia” di Palermo).
Dei loro “pezzi”, naturalmente, prenderemo soltanto in considerazione le parti descrittive delle scene rappresentate, quasi delle foto o dei filmati impersonali, lasciando nell’ombra opinioni o racconti fantastici.
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“Il carro funebre è arrivato a Partanna all’alba, quindici ore di viaggio per trasportarne la bara da Roma in Sicilia. L’autista del carro ha chiesto ad un benzinaio dov’era il cimitero, poi il feretro è scomparso dietro un filare di alberi … Cimitero quasi deserto alle cinque di un caldissimo pomeriggio d’estate. Le donne del paese, il prete, il farmacista, un agente di viaggio, una vecchia zia, la sorella con il marito, la vedova di un operaio ucciso per errore, il sindaco con tre vigili urbani … Comincia il rito funebre, il prete parla della crisi depressiva di Rita e le donne si ribellano …”
Attilio Balzani
(Da “La Repubblica” – Sabato 1 Agosto, pag. 9)
Oggi, non c’è un ricordo di Rita, non c’è una parola, neanche un’immagine, non c’è un amico, e non c’è neppure la mamma, oggi che hanno portato la sua misera bara di noce giù per il vialetto inondato di sole.
Rita Atria era una pentita che aveva rilasciato le sue confessioni sulla mafia a Borsellino: s’è uccisa buttandosi dal settimo piano, perché diceva di essere rimasta troppo sola dopo l’attentato di via D’Amelio.
E adesso in questo piccolo camposanto piantato tra i vigneti sulle colline di Partanna, non c’è quasi nessuno che l’accompagna per l’ultimo viaggio, quasi a spiegare con questo quadro terribile – un sindaco, un prete, qualche donna di nero vestita – tutta la disperante solitudine del suo messaggio …
Fa un caldo che si soffoca, quando scende la bara, giù per il vialetto …
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Non c’era nessun altro ai funerali di Rita. Solo don Calogero Russo, con la sua tunica stazzonata vicino alla bara che scendeva nella terra …”.
Pierangelo Sapegno
(Da “La Stampa” – Sabato 1 Agosto, pag. 7)
“Sono le donne, anche tante donne di Partanna, a seppellire la povera Rita Atria, suicida a 18 anni perché senza Paolo Borsellino non si sentiva più protetta, esposta alla vendetta dei mafiosi e dei potenti da lei accusati di traffici e delitti …
Il carro funebre arriva da Roma alle nove del mattino e va dritto al cimitero, senza messe grandi … Solo un rito all’aperto, sotto il sole delle cinque del pomeriggio, fra i cipressi e le tombe … fra gli applausi di due, trecento persone …”
Felice Cavallaro
(Da “Il Corriere della Sera” – Sabato 1 Agosto)
“Un male che non era suo, e che non doveva neppure sfiorarla ha ucciso questa ragazza, dice l’arciprete della chiesa madre, don Calogero Russo, mentre l’omelia funebre volge al termine. Un male, un evento doloroso … che impone a tutti di vivere nella giustizia … Al cimitero non ci sono più di un centinaio di persone tra i 12 mila abitanti di Partanna … Un manipolo di parenti attorno alla bara di legno chiaro … C’è il gonfalone del Comune scortato dai vigili urbani, c’è il sindaco in veste ufficiale, ma non c’è la gente ai funerali di Rita Atria, la diciottenne di questo paese che si è tolta la vita domenica a Roma dopo che le sue dichiarazioni hanno contribuito a sgominare due cosche della zona
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e a mandare in carcere venticinque personaggi eccellenti …”.
Antonio Giorgi
(Da “Avvenire” –Sabato 1 Agosto, pag. 5)
“Benvenuti a Partanna terra di vigne, di mafia, di omertà e di donne che non si arrendono … sono le donne che portano a spalla la bara di Rita Atria, ieri pomeriggio sotto un sole che acceca lungo il vialetto del camposanto …
C’è poca gente al cimitero, davanti a don Calogero Russo che celebra una messa all’aperto, dopo aver chiesto il permesso all’Ordinario diocesano, perché Rita si è ammazzata e non ha diritto ad una messa, ma siccome l’ha fatto durante una crisi depressiva la Chiesa ha dato il permesso. Cento persone al massimo …”
Ruggero Farkas
(Da “L’Unità” – Sabato 1 Agosto 1992, pag 8)
“Ci hanno regalato qualche lacrima, un’omelia religiosa e una politica, slogan sessantottini. Ce li hanno regalati dentro un lindo cimitero …
La bara di noce chiara non ha avuto accesso dentro sacre mura. Non è per la legge del diritto canonico, che gli uffici di padre Russo hanno aggirato, ma per espressa volontà dei familiari.
Rita era preda di un violento ciclone interiore, ha ipotizzato padre Calogero, mentre le venti donne del digiuno di Piazza Castelnuovo accarezzavano la bara e borbottavano, girando poi le spalle alle parole del sindaco”.
Paolo Tartamella
(Da”La Sicilia” – Sabato 1 Agosto 1992, pag 3)
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“Poca gente ai funerali di Rita Atria, collaboratrice di giustizia … solo una piccola folla per l’ultimo addio a una ragazza infelice e coraggiosa …
C’è il parroco, don Calogero Russo che celebra piangendo … ma alla fine della cerimonia, all’aperto perché non c’è più chiesa, anche quella distrutta dal terremoto, alla fine di un pomeriggio di caldo catastrofico, sui tanti fiori che pure arrivano dalle famiglie del paese, alla fine il vento fa stormire gli altissimi cipressi …”
Delia Parrinello
(Da “Il Giornale di Sicilia – Sabato 1 Agosto 1992, pag 4)
Di fronte ai “pezzi” giornalistici proposti, contrassegnati da una prosa non immune da retorica e spesso contraddistinti da stereotipi e da pregiudizi, sarebbe oltremodo facile effettuare esercitazioni di ironia su aspetti vari del proscenio prodotto.
E così, per esempio, sarebbe succulenta preda di un facile sarcasmo la strana “conta” effettuata dai giornalisti riguardo al numero delle persone presenti al funerale di Rita Atria.
Il giornalista de “La Repubblica” ne ha contato 21: un prete, un farmacista, un agente di viaggio, una vecchia zia, una sorella, un cognato, una vedova di mafia, un sindaco, tre vigili urbani, dieci donne che portano la bara. Ora, a parte il prete, il Sindaco e i vigili urbani, facilmente individuabili per le rispettive “divise”, come avrà fatto il giornalista ad individuare la professione o la parentela degli altri? Glielo ha letto scritto in fronte o glielo ha estorto presentandosi come agente delle forze dell’ordine?
Il collega de “La Stampa” addirittura ne conta 7 o 8: un sindaco, un prete, qualche donna di nero vestita. E, di grazia, le donne portavano pure lo scialle nero?
Il corrispondente de “Il Giornale di Sicilia” non si sente di trinciare numeri e parla di una piccola folla.
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“L’Avvenire” e “L’Unità” sono più generosi e arrivano a contarne cento, anche se il foglio comunista si precipita subito a precisare “al massimo”.
“Il Corriere della Sera” si sbilancia pericolosamente raggiungendo le due o trecento presenze. Senza tener conto del fatto che fra duecento e trecento ci corre un bel po’.
Il lettore, forse, si starà chiedendo se veramente quegli “inviati speciali” fossero presenti nel cimitero di Partanna in quel fatidico pomeriggio del 31 luglio 1992. Se può servire a rassicurare i dubbiosi, mi affretto subito a garantire, come testimone oculare, che quei giornalisti erano veramente presenti.
E allora come si spiega tanta disparità di … numeri? E’ solo una questione imputabile alla condizione di “ottimismo” o di “pessimismo” che fa vedere “mezza piena” o “mezza vuota” la classica bottiglia riempita a metà?
Purtroppo la verità è un’altra. Gli “inviati speciali” dei vari quotidiani hanno giocato tutti al ribasso, alcuni in maniera spudorata, altri cercando di salvare la faccia. Non è, forse, un caso che i corrispondenti dei due quotidiani isolani non abbiano “dato i numeri”: l’uno, quello de “La Sicilia”, pilatescamente sorvolando sull’argomento; l’altra, quella de “Il Giornale di Sicilia”, utilizzando l’espressione indefinita di “piccola folla”.
Ora, anche il più sprovveduto dei lettori sa bene che una frase, una parola, una semplice virgola, collocate in contesti diversi danno al discorso significati diversi. Provate, per esempio, a considerare l’espressione “una piccola folla” sganciata dal contesto in cui si trova nell’articolo di Delia Parrinello; concentrate alternativamente per un momento la vostra attenzione prima sulla parola “piccola” e poi sulla parola “folla” e vedrete l’effetto che fa. E il “manipolo di parenti” di cui parla Antonio Giorgi su “L’Avvenire”? Manipolo! pochi o molti?
Il problema, comunque, è di capire da dove nasce la volontà di evidenziare la presunta assenza della popolazione di Partanna, ammesso che di assenza si possa parlare.
La prima ipotesi che viene fuori dalla lettura dei vari pezzi giornalistici è che si vuole accreditare la tesi della “mafiosità” dei
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partannesi, che si sarebbero astenuti dal partecipare ai funerali di Rita Atria per paura della mafia, per “omertà” o addirittura per connivenza con la mafia o per un qualche astio nei confronti di chi aveva deciso di collaborare con la giustizia.
Altrimenti, come si spiegherebbe il fatto che:
- – tutti i giornalisti, pur partendo da “numeri” tanto diversi,
- approdino alle stesse conclusioni, e cioè che ai funerali “non
- c’era nessuno” o “c’era poca gente”?
- – nessuno di loro mette in evidenza l’assenza totale, questa sì, del
- cosiddetto “Stato” ai vari livelli delle varie realtà istituzionali:
- dal governo alla magistratura, dalla politica al sindacato?
- – e laddove le istituzioni (quelle locali) sono presenti (Sindaco e Giunta da una parte e Parroco dall’altra) si va alla ricerca di ogni elemento (forzando gesti e parole) per ritorcergli contro la stessa loro presenza?
- – a nessuno dei giornalisti presenti (neppure ai corregionali,
- purtroppo) sia passato per la mente, anche per un solo attimo, l’idea che duecento o trecento persone (quante ne ha visto il giornalista de “Il corriere della Sera”) in un paese di 12 mila abitanti (compresi in una fascia di età da 0 a 100 anni!), alle cinque del pomeriggio di un’afosa giornata di fine luglio, durante il periodo in cui il 60-70% della popolazione è riversata sui litorali di varie località balneari lontane da Partanna (Triscina, Selinunte, Tre Fontane), duecento-trecento persone, dicevo, non siano affatto poche?
Vien fatto di pensare ad una sorta di “parola d’ordine” per il mondo giornalistico (una volta si sarebbe chiamata “velina”) con l’intento di appiccicare l’etichetta di “mafiosa” all’intera comunità.
Certo, una simile tesi avrebbe bisogno di essere sostenuta da prove valide. E, per la verità, non è facile dare corpo a intuizioni, o sospetti che dir si voglia, che non restino solo tali.
Ma, non è vero che:
– erano giorni, quelli, in cui si respirava un clima per cui “faceva chic” riempirsi la bocca di “antimafiosità”?
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- – risultava facile acquisire il titolo di “antimafioso” mettendo alla gogna veri o presunti mafiosi (e più i “presunti” che i “veri”, anche perché ad infierire sui “presunti” non si rischiava granché)?
- – l’opinione pubblica (soprattutto quella nazionale) richiedeva, più o meno consapevolmente, un “capro espiatorio” su cui scaricare tutte le tensioni di cui la società era carica?
- – è quanto meno ipotizzabile che il mondo giornalistico potesse, in certo qual modo, credere di dover tributare un “pedaggio” a quanti erano impegnati a combattere la mafia sul fronte della giustizia e della lotta armata, lasciati soli per lungo tempo anche dal mondo delle agenzie di informazione?
Ma al di là della facile ironia e delle personali opinioni (qualcuno potrebbe anche definirle “sospetti”) in cui forse siamo caduti anche noi (con la differenza, però, che il sospetto di padre Pintacuda urta con i fatti, mentre i nostri si muovono su un piano psicologico supportato da fatti), dalla lettura dei precedenti “pezzi” giornalistici risaltano subito alla nostra attenzione almeno quattro aspetti di un’unica realtà.
Il primo elemento che mi pare si possa facilmente cogliere è che nel pomeriggio del 31 luglio 1992 il Parroco della Chiesa Madre di Partanna (l’Arciprete don Calogero Russo) abbia celebrato dei “funerali religiosi”, con tanto di Messa ed omelia.
Le testimonianze dei giornalisti sono molto esplicite in tal senso:
- – Attilio Bolzani, su “La Repubblica”, annota
“… Comincia il rito funebre … il prete parla della crisi depressiva di Rita …”; - – Pierangelo Sapegno, su “La Stampa, precisa:
“… Solo don Calogero Russo vicino alla bara che scendeva nella terra …”;
- – Felice Cavallaro, sul “Corriere della Sera”, accenna ad
“ … un rito all’aperto sotto il sole cocente delle cinque del pomeriggio fra i cipressi e le tombe …”;
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- – Ruggero Farkas, su “L’Unità” scrive espressamente
“Don Calogero Russo celebra una messa all’aperto, dopo aver chiesto il permesso all’Ordinario diocesano…”
- – Delia Parrinello, su “Il Giornale di Sicilia”, incalza:
“ … don Calogero Russo celebra piangendo …”.
Non crediamo, dunque, stando ai documenti giornalistici, che possano esserci dubbi sul fatto che
- – è stato celebrato un rito funebre;
- – il celebrante era il parroco della Matrice, don Calogero Russo.
Strettamente legato a questo primo elemento ve n’è un secondo: quel rito funebre non è altro che una Messa di suffragio per Rita Atria “presente cadavere”.
Ancora una volta ci lasciamo soccorrere dalla testimonianza giornalistica:
- – Non so se consapevolmente o meno, Felice Cavallaro (“Il Corriere della Sera”) butta giù, quasi con noncuranza, l’espressione “senza messe grandi … solo un rito all’aperto”
rievocando, o forse anche rimpiangendo, messe solenni, con canti gregoriani e nuvole d’incenso, e riconoscendo implicitamente la celebrazione di una messa, anche se in tono dimesso, senza fastosità;
- – Antonio Giorgi, forse con maggiore consapevolezza, vista la matrice del giornale su cui scrive (“L’Avvenire”), fa riferimento ad una “omelia funebre”,
dando per scontato la celebrazione della messa, di cui l’omelia è componente implicita;
- – Ad una “omelia religiosa” ci richiama Paolo Tartamella (“La Sicilia”), ponendola in parallelo con una “omelia politica” proposta dal Sindaco;
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– Ruggero Farkas è, infine, ancora più esplicito e più preciso, riferendo su “L’unità” che
“… don Calogero Russo … celebra una messa all’aperto …”.
E’ evidente e documentato, quindi, che
- – in quel fatidico 31 luglio 1992, presente il cadavere, fu celebrata una messa, la prima messa in suffragio di Rita Atria;
- – il celebrante era l’arciprete Russo.
Ma i documenti giornalistici chiariscono un terzo aspetto del problema, e cioè che i funerali non furono celebrati nella chiesa parrocchiale non già per manovre occulte attribuibili al Parroco o al Vescovo, ma per decisione del comandante la Stazione dei Carabinieri e per espresso desiderio dei familiari.
– Paolo Tartamella (“La Sicilia”) sottolinea che
“ … La bara di noce chiara non ha avuto accesso dentro sacre mura … non per la legge del Diritto Canonico … ma per espressa volontà dei familiari …”;
– Anche Ruggero Farkas(“L’Unità”) sottolinea che
“ … don Calogero Russo celebra una messa all’aperto dopo aver chiesto il permesso all’Ordinario diocesano (il Vescovo, n. d. r.) perché Rita si è ammazzata e non avrebbe diritto ad una messa, ma siccome l’ha fatto durante una crisi depressiva la chiesa ha dato il permesso …”,
escludendo ambedue che la Messa fosse stata celebrata all’aperto a causa di divieti ecclesiastici. Infatti, il Parroco aveva chiesto il permesso al Vescovo e questi lo aveva accordato: a quel punto nulla vietava che la messa venisse celebrata nella chiesa parrocchiale; il divieto, quando viene comminato, non riguarda tanto o soltanto l’ingresso in chiesa, quanto la celebrazione della Messa. Se il corrispondente de “L’Unità”, Ruggero Farkas, non innesca una polemica aperta nei confronti del Parroco è perché sa che la decisione di celebrare il rito funebre all’interno del cimitero non è stata sua.
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Ci si potrebbe chiedere (ed è questo il quarto elemento di riflessione) perché mai la celebrazione abbia avuto luogo all’aperto e non invece dentro la chiesa cimiteriale.
Il “mistero” è, però, chiarito da una puntualizzazione di Delia Parrinello (“Il giornale di Sicilia”) che rivela che la cerimonia si è svolta
“ … all’aperto perché [nel cimitero] non c’è più chiesa; anche quella distrutta dal terremoto …”.
Quasi a dire che, se la chiesa del monumentale Convento dei Cappuccini, all’interno delle mura cimiteriali, fosse stata ancora agibile, il rito funebre avrebbe potuto essere celebrato fra sacre mura. E’ notorio, infatti, che prima del terremoto del 1968 nel giorno dei Morti, e in altre rare occasioni, la Messa veniva celebrata nella chiesa del Cimitero dedicata a S. Andrea; ma da quando il sacro edificio è stato dichiarato inagibile a causa del terremoto del 1968, la Messa anche in quelle occasioni viene celebrata all’aperto, proprio nello stesso spazio dove si sono svolti i funerali di Rita.
A questi quattro elementi di riflessione se ne potrebbe aggiungere un quinto, anche se solo di straforo: la presenza attiva dei partannesi.
Quasi tutti i corrispondenti dei giornali presenti (tutti meno due, per la verità) accennano alla presenza del Sindaco del Comune di Partanna, ma en passant, sottotono, se è vero che solo uno (Paolo Tartamella de “La Sicilia”) fa intendere fra le righe che il primo cittadino, non solo è ufficialmente presente assieme alla Giunta, ma interviene per dare l’estremo saluto alla sua concittadina, esaltando il suo coraggio civico ed esprimendo parole di condanna nei confronti della malavita organizzata;
(“Ci hanno regalato qualche lacrima, un’omelia religiosa e una politica”).
Un intervento, quello del sindaco, certamente non previsto dai professionisti dell’antimafia e, quindi, non gradito dalle
“donne del digiuno di Piazza Castelnuovo” che, borbottando, manifestano la loro contrarietà
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“girando le spalle al sindaco”.
Così come, soltanto due (Felice Cavallaro de “Il Corriere della Sera” e Delia Parrinello de “Il Giornale di Sicilia”) hanno notato la presenza delle famiglie partannesi:
– il primo, sottolineando che
“Sono le donne, anche tante donne di Partanna, a seppellire la povera Rita”,
– la seconda, mettendo in scena i
“tanti fiori che pure arrivano dalle famiglie del paese”.
E, guarda caso, a mettere in evidenza questi particolari che sottolineano i sentimenti della maggior parte dei partannesi non sono soltanto i giornalisti delle testate isolane.
Le prime quattro riflessioni, comunque, ci portano ancora una volta a ribadire che:
Nel pomeriggio del 31 luglio 1992, viene celebrato un rito funebre in suffragio di Rita Atria;
A celebrare la Messa è l’Arciprete, Don Calogero Russo:
Il rito funebre viene celebrato all’interno del Cimitero;
Il rito funebre viene celebrato all’interno del Cimitero e non già nella chiesa madre, per decisione delle forze dell’ordine e per espresso desiderio dei familiari di Rita;
La celebrazione viene effettuata all’aperto in quanto all’interno del cimitero, a causa del terremoto del 1968, non esiste più la disponibilità di una chiesa.