I culicchiani e il modello culturale partannese

Le spaziose vallate dolcemente salienti dalla riva destra del fiume Hypsa, ora detto Belice, e dalla sinistra del Selinus, or detto Modione, convergono quasi ad uguale distanza a formare un ampio ed aprico pianoro. Naturale e amena terrazza, ove termina la centrale delle tre catene, va via via allargandosi verso tramontana e raggiunge 540 metri in contrada Montagna detta “Punta d’Amari”. A mezzogiorno il sottostante declivio, appena sensibile che par quasi pianura, digrada fino alla costa vicina, compresa tra le due foci. Il pianoro s’arresta invece elevato, panoramico: quasi ritroso di bagnarsi, come l’Erice e il Cronio vicini, nell’onda invernale fluttuosa, ma pur vago d’affacciarsi sulla distesa glauca del Mare Nostrum…
Così Varvaro Bruno descriveva Partanna.
Poi venne Enzo Culicchia, persona perbene e soprattutto intelligente, sicuramente elevato come una montagna rispetto ai nani che lo circondavano. Sia amici che avversari. E così Partanna passò dal dominio dei Grifeo al dominio di uno zar dal volto umano che fece dell’assistenzialismo più che un modo di governare un modo di vivere: nessuno poteva contare su se stesso, la spartizione dei posti di lavoro era rigorosamente da manuale Cencelli: tot ai democristiani, tot ai comunisti e così via cantando. Al di là delle ostentazioni i partannesi non hanno legami, solo connessioni. Vige il biblico “ad un parmu di lu me culu”, il che vuol dire che la lontananza giusta da me e dai miei interessi non mi riguarda, rinforzato dalla visione non proprio solidale: mortu je, subissatu lu munnu, una volta morto, succeda pure il finimondo. L’unica cosa che interessa – parlare di valore sarebbe un controsenso – e per cui valga la pena vivere è la reputazione, quella rappresentazione condivisa e diffusa dalla collettività in cui si vive e purtroppo di cui si vive: fatti la fama e va curcati. La reputazione qui nasce dai pettegolezzi che prescindono e travalicano il controllo di chi ne è oggetto e sono basati su informazioni di seconda mano, spesso false, comunque non documentabili, non di rado innescate e diffuse dagli opinionisti del paese, quelle autorità epistemiche a cui si riconosce un expertise superiore e a cui ricorre la gente comune non proprio famosa per l’impegno nello studio e per l’amore delle proprie abilità cognitive: l’identità individuale non esiste: si vive una identità collettiva che all’interno di un sistema di regole implicite che ti danno gli altri, il buon senso che qui è il senso comune, i comportamenti approvati, la ripetizione del già fatto, l’avversione per ogni novità, ogni deviazione che qui è devianza. La vanità è il peggiore dei mali in un paese che ha fatto dell’umiltà il proprio idolo, il proprio, credo, il proprio rifugio che permette di nascondere ciò che in realtà sarebbero non solo i propri vizi, ma anche pubbliche virtù. L’umiltà poi è rassicurante, come la recita di un copione che essendo accettato e unico, è prevedibile, senza sorprese, senza fughe in avanti, senza lo spettro del cambiamento. E questo modo di vivere anche se spesso costringe ad umiliazioni a fronte di gente mediocre, è condiviso, praticato, teorizzato: calati juncu, chi passa la china. L’esaltazione ossessiva dell’umiltà è qui talmente forte da far pensare che gli esaltatori – tutti ricchi e intolleranti. Abbiano paura che l’orgoglio – negli altri possa essere un attentato contro i propri averi. Qui non conta l’essere ma l’avere. Perciò la cantilena: CU S’AVANTI CU LI SO DENTI UN C’è NENTI: MA su che basi etiche si pensa questo e si si etichettano le persone? Del resto qui conta l’onore, non la dignità. La dignità è democratica, la preferenza è precedenza, è saltare la fila, è essere privilegiati, preferiti. E una buona reputazione si acquista seguendo l’uniformità, il non fare, il non creare, il seguire ciò che si è sempre fatto. Fatti la fama e curcati.
Vige il comune senso del pudore, ancora fermo ai dettami della compagnia di Gesù, vige e si alimenta l’immobilismo, il fronte armato contro ogni novità, ogni stranezza, ogni pur minima stravaganza. E l’unico modo per godere di una buona reputazione è quello di svelare di sé il meno possibile. Il pubblico vorrebbe vedere solo dietro le quinte e se ci riesce, addio reputazione! Perciò l’uomo deve piacere e nessun partannese è quello che vorrebbe: si è liberi, ma liberi dentro una ferrea necessità che ci si porta appresso generazione dopo generazione. Gli antenati vivono ancora nell’uniformità dei comportamenti attuali, il futuro non esiste neanche come verbo, ciò che si dovrà fare è un dovere: domani andrò al mare o staserà cenerò con gli amici diventano doverizzazioni: domani haiu a ghiri (dovrò andare) a mare, diventa un dovere, un impegno gravoso per necessità formale, anche se poi alla realizzazione ci si abbuffa tanto che i partannesi detengono il primato in Europa per numero di diabetici. E dato che di natura sono paurosi, continuano a portare fiori invece di opere di bene e perciò qui il diabete, dappertutto maschile e perciò più forte, viene femminilizzato: la diabete. Nessuno dà un soldo per le malattie metaboliche incuranti degli esami lipidici che invece di sangue tirano fuori a mitraglia salsicce. Basta guardarli a passeggio: non camminano, compiono un rito. Non si muovono per sé, ma per gli altri: per osservare ed essere osservati, per mirare ed ammirare, per essere esaminati ed esaminare: tutti hanno il diritto di giudicare e di essere giudicati. Ma qualcosa sembra cambiato: un tempo taciturni ed immobili, seduti per un’eternità dinanzi all’uscio delle loro case o in piedi riuniti a crocchio nella piazza o nella strada maestra, tutti subiscono l’esame di tutti. Ora si esce e spesso anche con le donne che anche loro devono esibire la loro natura moderna nei vestimenti e ciononostante angeli del focolare. L’uomo deve piacere. La donna no: deve essere stimata. Di un partannese che non superi l’esame si dice che non piace. Partanna ’mpinta a mala banna non era un’ingiuria, era un destino. Ma i partannesi non credono a niente che non sia frutto dell’elaborazione dei paesani che contano, che impongono un modello culturale fatto di credenze indiscusse perché indiscutibili. L’ominità qui va perseguita ad ogni costo e il partannese si crede uomo, più uomo degli altri. Qui l’atteggiamento nei confronti della mafia è che, essendo tutto mafia, niente è mafia. E qui un ricordo personale: Ero seduto sul gradino della casa, anni ’60, studiavo davanti casa, disturbato dalla campana gracchiante su cui, per di più, si sovrapponeva la voce stridula di un prete che aggregava rosari e omelie. Dal fondo della strada stava arrivando lu zu Ninuzzu, uomo d’onore all’antica, fedina penale senza più spazio.
Arrivato vicino a lui, lo “zio” gli rivolse la parola:
Niputeddu chi fa? – Studio, zu Ninuzzu, studio. – E chi studii? – Storia, geografia…Studio per gli orali della maturità. – Li scritti li facisti? – Sì, ho superato le prove scritte. – E l’interrogatorio quando ce l’hai?
Tutto qui sia governato da regole ancestrali e implicite che diventano esplicite solo quando vengono infrante. I partannesi sono convinti che vivono nel migliore dei mondi possibili come il Pangloss di Candido. Si è certi che nessuno potrà deviare da quel vangelo laico che sono i proverbi.
Ma Partanna è la più siciliana delle città siciliane. Per i partannesi la terra è piatta. Perché qualsiasi teoria, convinzione, comportamento, qualsiasi difformità dalle dure convinzioni teologali, pur se scientificamente esperita, vista, provata come San Tommaso, qui non è rinnegata, come rivoluzione che farebbe crollare tutto. Il partannese è aristotelico e pur di fronte all’impeccabile dimostrazione oculare, fatta da un medico che i nervi traggono la loro origine dal cervello, è costretto ad affermare: voi mi avete fatto vedere questa cosa talmente aperta e sensata che quando il testo di Aristotele un fusse contrario, bisognerebbe confessarla per vera.
Qui Aristotele ha le mille sfaccettature dei proverbi. Fatti la fama e curcati. Fatti una reputazione e non la cambierai mai.
Qui i cittadini non amano leggere. L’unico romanzo richiesto all’addetto alla Biblioteca Comunale di Partanna – un posto creato apposta per un avvocato senza lavoro ma di buona famiglia – era stato “L’Amante di Lady Chatterley.” Ma di quel romanzo solo 16 pagine apparivano lette, usate, consumate, unte, consunte.
“Cu nesci arrinesci”. Gli emigranti qui sono per sempre. Non si emigra nello spazio, ma nel tempo.
Lu pedi di pignu. Un luogo dove i frequentatori si riunivano nel vero tribunale del paese ed emettevano sentenze. Sempre in contumacia, dato che sentenze e pettegolezzi si svolgono sempre sugli assenti. I membri del piede di pigno sono più che ordinari partannesi, sono la partannesità. Fanno e disfanno la fama, le reputazioni nascono e si alimentano qui. Gli studiosi di sociologia, come già accennato, li chiamerebbero autorità epistemiche, quelle persone cui si attribuisce esperienza e saggezza e che hanno sempre voce in capitolo. Ma in questo paese la sociologia avrebbe vita breve: se vedi passeggiare tre cittadini partannesi non ci sono dubbi: due sono maestri elementari, il terzo è professore di educazione fisica.
Lu pedi di pignu. E il lavoro: importante è il posto, inutile aggiungere fisso. Poi ci si deve sposare. Gli scapoli disturbano il paesaggio. Ma dopo Enzo Culicchia politico vecchio e vecchio politico. Cosa è successo? Niente. Solo l’emigrazione dei giovani e la permanenza dei vecchi. Nessuno dei successivi politici e amministratori ha saputo cambiare il modello culturale: contano le amicizie, le raccomandazioni, la fortuna di essere nati ricchi o furbi. Non rimane che partire per trovare idee. Partanna non riesce a pensare secondo un paradigma diverso, fatto di dignità non di onore. E allora ci si affeziona non alla meta ma al cammino, in attesa che qualcuno faccia qualcosa per cambiare:
Caminante, son tus huellas Viaggiatore, sono le tue orme
el camino y nada más; il cammino e niente più;
Caminante, no hay camino, Viaggiatore, non c’è cammino,
se hace camino al andar. si fa il cammino camminando.
Al andar se hace camino, Camminando si fa il cammino,
y al volver la vista atrás e volgendo lo sguardo indietro
se ve la senda que nunca si vede il sentiero che mai
se ha de volver a pisar. dovrai tornare a calpestare.
Caminante no hay camino Viaggiatore non c’è cammino
sino estelas en la mar. solo scie nel mare.
Qui, in questo paese, quando si alza il sipario, la tragedia è già compiuta.
Vito Piazza


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