SANTA NINFA – Dopo il grande successo della “Sagra della Salsiccia”, il 10 agosto, in piazza Cristo Risorto a Santa Ninfa, a partire dalle 20, prende vita la seconda edizione della sagra “di lu Maccarruni”, con un menu tipico della tradizione culinaria ed enogastronomica santaninfese. All’interno della manifestazione sarà presente uno stand di prodotti tipici per celiaci, dell’ottimo vino locale, il tipico cannolo Siciliano e il gustoso melone giallo della zona. Durante la serata si alterneranno musica e cabaret. L’evento è organizzato dall’Associazione Pro-loco di Santa Ninfa, con il patrocinio del Comune. La Pro Loco di Santa Ninfa è un’associazione locale molto giovane, nata con lo scopo di promuovere lo sviluppo del territorio, attraverso la valorizzazione delle tipicità locali. In breve tempo, questa associazione è riuscita ad affermarsi, curando, organizzando e gestendo eventi locali, che vanno dall’Altare di San Giuseppe alla Cursa dei Carritteddi, e passano per l’appunto per la Sagra Di lu Maccarruni. Grazie a queste iniziative, che sono dei veri e propri viaggi dentro la tradizione locale, gli associati sono riusciti a promuovere i prodotti tipici dell’enogastronomia e dell’artigianato santanininfese, riscoprendo le tradizioni popolari e culturali, che hanno reso questo piccolo paese, il fiore all’occhiello del Belice. In questo contesto di “riscoperta”, si inserisce la Sagra di Lu Maccarruni, volta a dare impulso al consumo di un piatto tipico per eccellenza, caratterizzato da: forte aromaticità; odore inconfondibile; meravigliosa succulenza.
L’etimologia del termine Maccarruni è controversa. C’è chi sostiene che il termine “maccherone” derivi dal latino tardo “maccare”, che significa “schiacciare”. Altri privilegiano l’origine greca del termine, per cui “Maccherone” potrebbe derivare sia da “macron”, grosso, sia da “makaria”, piatto greco, costituito da un impasto di farina d’orzo e brodo. Il filologo quattrocentesco Agnolo Morosini, fa riferimento a “makar” (greco classico, questa volta), che vuol dire “beato, felice”. Personalmente, propendo per quest’ultima etimologia. Perché chiunque abbia assaggiato li maccarruna della nonna di mia madre, per un momento è stato sicuramente “beato e felice”, come se fosse in Paradiso. Anche sull’origine territoriale dei maccheroni non ci sono certezze. I maggiori indiziati sono i cinesi. Forse perché la loro civiltà è molto più antica di quella occidentale, oppure perchè ormai sembra che abbiano inventato tutto loro: dalla bussola, ai fuochi d’artificio, passando naturalmente per la pasta. E quindi, c’è chi sostiene che i maccheroni siano stati portati in Italia da Marco Polo, di ritorno a Venezia, dalla Cina. Ma se andiamo indietro, a prima del Milione di Marco Polo, di sicuro, della pasta ne sapevano qualcosa gli Etruschi. Nella tomba della “Grotta Bella”, a Cerveteri (IV secolo a.C.), c’è la raffigurazione dell’interno di una casa, in cui è rappresentato tutto ciò che serve per preparare la pasta: il matterello, la spianatoia, la rotella per tagliarla. E’ altresì, risaputo, che intorno all’anno 1153, i siciliani di Trabìa, vicino Palermo, lavorano un tipo di pasta in forma di filamenti, con il nome arabo di “itriyah”, che varcava i confini della cristianità. Quindi oltre ai cinesi e agli italiani, come inventori della pasta potrebbero esserci anche gli arabi. Che li avessero inventati loro, o li avessero “importato” dagli arabi, i siciliani sono, comunque, fino al Medioevo, dei formidabili mangiatori di pasta, tanto da meritarsi l’appellativo di “mangiamaccarruna”. Il poeta tedesco Walter Von der Vogeiweider (1165-1230), racconta che i siciliani amavano “i maccheroni dal sugo dolce.” Più tardi, nel 1348, Giovanni Boccaccio, descrive le meraviglie gastronomiche del leggendario paese di Bengodi. Quando l’arte culinaria, si incrocia con quella amatoria, diviene poi magia. E così vale la pena ricordare che anche Giacomo Casanova, compose un sonetto in onore dei maccheroni. I maccheroni c’entrano pure con le strategie politiche. A Parigi, poco prima del 1860, si racconta che l’Imperatrice Eugenia inviasse messaggi cifrati, circa l’annessione della Sicilia al Regno di Piemonte, al Conte di Cavour, utilizzando le parole: arance, arancini e maccheroni. Oltre che poesia, la pasta è musica. La pasta alla Norma, simbolo della tradizione culinaria siciliana, piatto a base di maccheroni conditi con salsa di pomodoro, e l’aggiunta successiva di melanzane fritte, ricotta salata grattugiata e basilico fresco, deve il suo nome al capolavoro di Vincenzo Bellini. Sembrerebbe, infatti, che a dare il nome “Norma” al primo piatto sia stato, Nino Martoglio (1870-1921), il noto commediografo catanese, che davanti ad un piatto di maccheroni, sugo, melenzane e ricotta, esclamò: “Chista è ‘na vera Norma!“, per manifestare la suprema bontà del piatto, paragonabile al capolavoro musicale. E se in Cina è stato recentemente ritrovato un villaggio del neolitico, in cui tra gli oggetti di uso quotidiano ritrovati, c’era una specie di piatto capovolto, in cui sono stati rinvenuti dei filamenti fatti con un impasto d’acqua e farina, dei veri e propri spaghetti; mi piace pensare, che scavando scavando, una galleria tra la Necropoli partannesse di c/da Stretto e quella santaninfese, di c/da Monte Finestrelle, tra qualche anno i figli di questa terra potranno scoprire di essere gli inventori dei primi fast-food, e soffiare il primato agli americani. Infatti, cos’erano le “enormi” tavolate in cui, subito dopo la guerra, si consumavano “li maccarruni di casa”? In pochi, tra noi, si ricordano, di quando si andava nelle campagne lontane, con i muli, “a tempu di “metiri” (al tempo di mietere il grano), e le donne, durante la notte, “capu lu scanaturi”, (utilizzando delle grandi tavole di legno), “filavano li maccarruni”, li mettevano poi a riposare, sopra “li trubbela”, le tovaglie di lino, tessute a mano, per poi cucinarli, solo l’indomani sera, quando si tornava dal campo, in grandi pentoloni fumanti, “vecchie quadari” (vecchi e giganteschi pentoloni), sui focolari di pietra antica, e li servivano nelle antiche “maidde” (strumenti simili ad enormi cassetti). Ed i maccheroni si mangiavano così. Senza posate. Con le sole mani stanche e indurite dal lavoro. Senza piatti di carta, che l’acqua non arrivava dentro casa, ed il pozzo era spesso lontano. E come condimento, c’era: un po’ di ricotta salata gratuggiata; una foglia di basilico; ed una goccia d’olio; ma soprattutto l’enorme fame di un popolo abituato alla fatica ed al lavoro. E solo quando si “finia e si trasia lu frumentu”, (finita la mietitura e messo il grano al sicuro) allora, o si “vugghia la pecura” (bolliva la pecora) o “si scannava lu viteddu” (uccidevano il vitello) o “s’ammazzava lu porcu” (uccidevano il maiale) per fare festa e “pi cunzari la pasta” (fare il condimento per la pasta, rigorosamente fatta in casa). Poi c’erano, li maccarruni di la “zita” ( cioè della sposa) erano preparati per il pranzo nuziale, ma solo quando le famiglie erano nobili e ricche. Oggi la fantasia culinaria di piatti a base di “maccarruni” si sbizzarrisce in sempre nuovi abbinamenti con salse e prodotti locali, che sono una calorica e vitalizzante tentazione gastronomica, per ogni palato, ma soprattutto un traguardo dell’estro creativo che è riuscito, nel corso dei secoli, ad unire: sapori,colori, odori e buon gusto. E così questa sagra mi riporta indietro, agli anni della mia infanzia. La mia nonna materna, preparava “li maccarruni” sul grande “scanaturi” in campagna, utilizzando per cavarli i ferri ottenuti dagli ombrelli rotti. Li chiamava “Li busi”. Ogni volta che usciva dal ripostiglio quell’enorme tavola di legno bianco, che odorava di farina ed olio, ed iniziava a preparare gli ingredienti per l’impasto, per noi bambini iniziava la festa che celebrava il ritorno “a casa” dei cugini americani. Stavamo un intero giorno, lì immobili ad osservare le mani delle donne che impastavano la farina, l’acqua e l’olio. Immobili a fare domande. Fermi, con gli occhi spalancati, nell’attesa di un altro racconto. La nonna materna non ci metteva le uova, perché diceva: “quelle vanno nelle lasagne, no “ni li maccaruni cavati”. Poi arrivava mio nonno, con la salsiccia appena fatta e la carne del vitellino appena ucciso. Ed i maccheroni, stesi in fila, venivano cotti nella pentola grande sul fuoco, e poi conditi con quel sugo dall’odore inconfondibile, in enormi pentole rosse di smalto o terracotta. Mio zio diceva che ci sentiva la “mano di sua madre e di suo padre”, in quella pasta “callosa”. Mia zia preparava le melanzane fatte a fette e fritte nell’olio extra vergine di oliva, e facevamo a gara per mangiarle prima che arrivassero in tavola. Mia madre, invece, utilizzava il taglio a cubetti piccoli, ma sempre rigorosamente fritte “nell’olio d’oliva”. Ed era più difficile “rubare” i quadrati. Melanzane a fette, a striscioline o a cubetti, mia nonna materna, a costo della vita, le voleva fritte e non grigliate. E quando ci sedevamo intorno a quella tavola sotto i pini, e noi bambini facevamo gli “schizzinosi” con il sugo, allora mia madre ci portava “li maccarruna” bianchi, ovvero “squadati” che, a ripensarci adesso, forse non sanno di niente, come diceva mio padre, eppure noi bambini, ci sentivamo “tutto”, con l’olio d’oliva verde fruttato ed un po’ di mollica di pane fritta. Se chiudo gli occhi, posso ancora vedere quei giorni, sentire il calore di quelle estati di infanzia spensierata, mentre sale alla mente l’odore del sugo che si confonde con il sudore di giorni senza condizionatore. Posso ancora sentire il padre di mia madre ridere, con quel tono burbero, ma caldo e pieno d’amore, mentre con le mani callose serve la sua ricotta “salata”, fatta con il latte che lui stesso aveva munto. Quanti di noi hanno questi ricordi? Se il 10 agosto, decidete di partecipare alla sagra di lu maccaruni, preparatevi a rivivere quel tipo di “contadine” emozioni, le trepidazioni delle nostre origini, la millenaria storia delle nostre tradizioni. La mia nonna paterna, invece, per fare “li maccarruni”, nell’impasto metteva l’uovo, ed utilizzava il filo di “iuncu” per “cavarli”. Se chiudo gli occhi, la ricordo, a lavorare la pasta in modo da portare “u iuncu” al centro del tocchetto, per formare il maccherone, stirando la pasta, con un movimento delle due dita. Se il ferro non “sfilava” bene dal maccherone, allora per lei l’impasto non è ancora buono. E la vedevi tornare ad impastare, con amore e pazienza, perché fare la pasta, diceva a noi nipoti, è come fare “un buon matrimonio”, ci vuole amore e pazienza, e quando l’impasto non è ancora buono per essere pasta, non si può buttare tutto, bisogna continuare con sapienza a cercare l’ingrediente che manca. Li maccarruni della nonna, i cugini dell’Altitalia, li volevano esportare; loro, quelli del Nord, la chiamavano “pasta cu li milinciani”, con l’accento milanese o toscano o romano, che a noi bambini faceva tanto ridere, e che adesso da grandi, mette tanta nostalgia. La mia nonna faceva i maccarruni e li cucinava quando eravamo in campagna, dove l’orto stagionale, curato dal nonno, forniva melanzane e pomodori freschi di prima qualità e a volontà. In questo caso li maccarruni venivano spolverati con abbondante pecorino locale, il cui odore continua a salirmi in testa, ogni volta che percorro certe strade di antica memoria. Ed adesso sorrido, pensando a quelle domeniche e a quelle giornate d’estate, quando la televisione in campagna non c’era, perché non c’era nemmeno la corrente elettrica. Ed i discorsi delle famiglie, non erano intorno al governo o alla pace nel mondo. Un tempo “lontano” in cui dentro le famiglie si parlava per tramandare la propria storia personale, fatta di riti, di arte e soprattutto di prodotti genuini. Tempi in cui, si parlava e rideva, mentre si cucinava e si arrostiva. Si discuteva su questioni effimere come il tipo di ricotta da grattugiare sopra li maccarruna. Alcuni volevano la ricotta infornata, il cui sapore cambia decisamente da quella salata, è infatti più dolce. Altri, dicevano che era meglio il parmigiano, invece che il pecorino, sollevando questioni autoctone che si placavano solo dopo un altro bicchiere di vino. Una delle cose su cui tutti eravamo d’accordo era sull’essenzialità del basilico, appena raccolto, lavato foglia a foglia, asciugato sotto il sole, dal profumo unico, che con la fresca aromaticità, bilanciava bene il gusto rinforzato del piatto. Una volta i cugini “stranieri”, convinsero nonna, a fare li maccarruna con il pesto alla trapanese, con l’aggiunta di tocchetti di pesce spada. Fu l’ultima volta che mangiammo in campagna con quei cugini. Nonno paterno era uomo di “carne”, e “non di pesce”. E quando nonna tornava sull’argomento, lui scuoteva la testa, riportando alla mente quei maccarruni di “mari”, che non racchiudevano la “sostanza della terra”. I miei nonni prima, e poi mio padre, sceglievano sempre i vini da portare in tavola. Mio nonno materno, adorava il rosso e diceva “chi li maccarruna senza vinu russi, sono come il pane senza lievito”. E quindi non mancava o un Nero D’Avola o il Nerello Mascalese fatto in casa. Mio nonno paterno, beveva solo bianchi, e quindi portava in tavola o uno Zibibbo secco, o un caldo Inzolia in purezza, o un morbido Grillo, sempre di buona struttura, magari con un annetto sulle spalle, invecchiati in quella botte nascosta nella stalla, che farebbe venire i brividi ad ogni buon enologo. Oggi, che il mio “palato” è più fine, io dico che un morbido e polposo Merlot sarebbe l’ideale con un piatto di “maccarruni rinforzato” alla Batman. Perchè se potessi tornare indietro, non mangerei li maccaruni squadati, ma come i grandi ci infilerei dentro tutti i sapori siciliani che contano. Perché li maccaruni, sono una pietanza che racchiude in se tutti i profumi e i colori della nostra amata isola, e che attraverso i colori del piatto richiamano i veri valori del Mediterraneo. Il calore, l’accoglienza, la forza e la sensibilità di un popolo, tutto racchiuso in un piatto che celebra il passato, per contribuire a gettare le fondamenta per l’avvenire. E così, se volete celebrare il vostro passato e guardare con coraggio al futuro, non potete mancare, domenica sera, alla sagra “di lu maccarruni” di Santa Ninfa, quando potrete finalmente assaggiare, la pasta tipica santaninfese, che sarà preparata con il contributo unico e prezioso delle cuoche ed dei cuochi volontari dell’associazione, che vi serviranno un piatto pieno e succulento, come si faceva un tempo. Non ci resta che andare alla Sagra di Lu Maccaruni, per vedere come i ragazzi dell’associazione l’hanno organizzata. Se saranno Maccaruni alla Norma, alla Trapanese, o alla Santaninfese, con pasta di salsiccia fresca, poco importa; l’importante è esserci per vivere nuove emozioni, e rivivere l’infanzia perduta. E come ogni sagra che si rispetta, c’è una manifestazione “veramente competitiva”. Durante la serata, infatti, si svolgerà la gara dell’Affamato Cronico, con iscrizione gratuita, per tutti coloro che di Maccarruni non sono mai sazi! Una bella iniziativa, se si pensa, che in questa nuova epoca, siamo davvero tutti affamati di qualcosa. Magari, mentre assaggiate il vostro piatto, ricordatevi di spiegare tutte le fasi ai vostri bambini, come la facevano le vostre nonne. E se non ricordate, qualche passaggio, chiedete ai volontari dell’associazione, che sono famosi per la gentilezza e disponibilità, come ho provato personalmente, sul campo l’anno passato. E se proprio volete essere “creativi”, se una storia non l’avete e non vi va di prendere in prestito la storia altrui, provate ad inventarvi una storia vostra. I nostri bambini sono affamati di fantasia. Io lo farò. Guarderò i miei piccoli e gli racconterò quelle storie “antiche” in cui stavano tutti bene, anche se non avevano play station e telefonini; quell’epoca in cui guardandoci e sedendoci intorno alla “maidda”, forse avevamo meno “cose”, ma di sicuro avevamo “più tempo per le persone”. Vi consiglio di farlo, di lasciare per una sera whatapp a casa, di chiudere tutti i congegni elettronici, e di aprire il cuore e la mente a ciò che vi sta intorno. A volte per “capire l’essenza” basta un piatto di maccarruna, ricco di storia, valori e tradizioni. Buon appetito!
Batman