Al cinema dal 31 ottobre “Berlinguer, la grande ambizione” con Elio Germano, regia Andrea Segre

ROMA – di Carlo Di Stanislao. Sono passati quarant’anni dalla morte di Enrico Berlinguer. Aveva 62 anni, si trovava a Padova ad un comizio, al suo funerale parteciparono un milione e mezzo di persone. Sfidando i dogmi della Guerra fredda e di un mondo diviso in due, Berlinguer e il Partito Comunista Italiano tentarono per 5 anni di andare al governo, aprendo a una stagione di dialogo con la Democrazia Cristiana e arrivando al “compromesso storico”.

Questi cinque straordinari anni iniziati con l’attentato al Segretario del Pci a Sofia e chiusi dell’omicidio di Aldo Moro, sono raccontati nel film Berlinguer – La grande ambizione, di Andrea Segre che ha aperto la Festa del Cinema di Roma e ha fatto vincere a Elio Germano il premio come miglior attore protagonista.

Segre non crea un semplice biopic, ma dipinge con pennellate decise il ritratto di una “democrazia zoppa e bloccata”, ieri come oggi gravata dalle influenze straniere e mai abbastanza coraggiosa nel portare avanti una vera evoluzione socioeconomica. Allo stesso modo il suo film delinea con precisione i limiti della Sinistra italiana anni ’70, soggetta allo scrutinio di Mosca e alla crisi del capitalismo mondiale.

In Berlinguer – La grande ambizione c’è una fetta consistente della Storia italiana: la strage di Brescia, il petrolchimico di Ravenna (con l’eco dell’omicidio Mattei), il segretario del Pcus Leonid Brezhnev (interpretato da un vero sosia) che cautela Berlinguer contro la possibilità di allearsi alle forze democristiane, il referendum per l’abrogazione della legge sul divorzio, il sessismo malcelato dei militanti di Sinistra, l’attentato delle Brigate Rosse a Francesco Coco, le intercettazioni telefoniche dei Servizi segreti e naturalmente l’omicidio Moro come vulnus dal quale l’Italia, e Berlinguer, non si riprenderanno.

La regia di Segre è precisa e mai manichea e plasma un grande film aiutato dagli attori, dalla fotografia di Bennoit Dervaux e dal sonoro magistrale di Alessandro Palmerini, sempre più bravo a calibrare suoni e sfumature. Noi andiamo a vedere un film, non diremmo mai che andiamo a sentire un film. Come dice un grande specialista di cinema, Roberto Monaco, la parte auditiva è data per scontata, e non ci rendiamo quasi mai conto del ruolo che gioca nel creare l’effetto totale a cui siamo esposti come spettatori.

Il detto secondo cui “un’immagine vale più di mille parole” è solo parzialmente vero per il cinema. Se infatti un’immagine può condensare in un istante le caratteristiche di un personaggio o di una situazione, per le quali sarebbero necessarie moltissime parole scritte, è anche vero che la qualità e la quantità di informazioni trasmesse dall’immagine dipendono non solo dall’immagine in sé, ma anche dal sonoro che l’accompagna.

Questo soprattutto se il suono è architettato da un maestro come Alessandro Palmerini, due volte premiato con il David di Donatello e Nastro d’Argento per il Miglior Suono (con i film Diaz nel 2013 e Le otto montagne nel 2023).

Il film di Segre riesce a restituire l’idea di un Paese concreto, vivo, desideroso di farsi carico del proprio futuro, un Paese molto distante da quello di oggi. Le idee sono quelle che Berlinguer esprime e difende all’interno di un dibattito politico che fa impallidire i pettegolezzi di oggi, cesellato nelle sue linee essenziali, ma insieme chiaro e dirompente.

Le persone sono quelle con cui il Segretario del Pci divide la propria vita: la moglie e i quattro figli, i dirigenti del partito, gli avversari politici ma soprattutto i lavoratori e i militanti che Berlinguer incontra. Mescolando la finzione (con un Elio Germano convincentissimo) con molto materiale di repertorio, il film riesce a restituire l’idea di un Paese vivo di passione politica, senza aver bisogno di cadere nella macchietta o nell’ideologismo, ma raccontando un’Italia che vorremmo ritornasse.


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