SANTA NINFA – Quando ho chiesto al direttore di scrivere un “pezzo” sulle arepas, mi ha ammonito dicendomi che Batman rischia di diventare tuttologo e di finire nella sezione culinaria; spero con questo articolo di ritornare sulla “giusta via”, ma attenzione alle seguenti precisazioni.
Batman adora le arepas, le mangia anche senza condimento; ama la terra del Venezuela, una nazione ricca di risorse, ma piena di conflitti; rispetta e stima la comunità santaninfese che vive in quel territorio, che negli anni è riuscita a costruire tantissimo e nei cui confronti l’Italia ha un debito enorme, anche solo a pensare agli enormi aiuti che vennero inviati nel periodo post-terremoto; ma ritiene che è tempo della politica “istituzionale” di fare un tagliando di controllo alle sue attività. Andiamo per gradi.
Le Arepas sono un piatto tipico originario del Venezuela, dove vengono mangiate ad ogni pasto; si tratta di piccole focaccine di farina di mais fritte in padella o cotte nel forno oppure sulla piastra. Possono essere gustate da sole o farcite con ripieni deliziosi.
Quando Galeotto Cei, mercante fiorentino e avventuriero, è sbarcato sulle coste venezuelane intorno alla metà del 1500, sperava di trovare molto oro; Agli indigeni poco importava di quel metallo, perché preferivano l’arepa. Il mercante fiorentino così scriveva nel suo diario: «Fanno una specie di pane con il mais, grosso di un dito, rotondo, come un piatto alla francese, e lo fanno cuocere sul fuoco unto di grasso per non farlo attaccare, girandolo su ogni lato. Lo chiamano arepa». Oltre mezzo millennio dopo, l’arepa è ancora la stessa. Si sono modificati i condimenti, con i quali la fantasia ed il gusto si alzano in volo: pollo, carne, pesce, prosciutto, uovo, fagioli, formaggio, e chi ne ha, più ne metta. Gli ingredienti per l’impasto sono semplici: Farina di Mais, Acqua, un pizzico di Sale, Olio. Mia zia che, nel Venezuela è emigrata negli anni ’50, all’impasto univa pure un uovo, fondendo un pizzico di Sicilia alla terra straniera. Ed ogni volta che la vedevo preparare quel piatto, la guardavo con orgoglio ed ammirazione, mentre le lacrime si univano al sorriso. Quando arrivò in terra straniera, lei cercava farina di grano per fare il suo pane e la sua pasta, ma trovava mais; doveva andare alla bottega sotto casa, mentre avrebbe voluto tornare al suo pollaio a prendere le uova fresche; si era adeguata alla nuova terra, ma anelava ogni giorno un ritorno in Patria. Mentre cucinava raccontava il corso degli eventi, la sua vita, una storia personale, dentro una comunità, piena di altri odori, fatta di altri stili, di sacrifici e nuove scoperte. Così la preparazione delle arepas, piatto estremamente semplice, in cui si mescolano tutti gli ingredienti e si lascia l’impasto a riposare per circa 20-30 minuti, diventava lo spunto per aprire gli occhi su un altro mondo, sul nuovo mondo, su quelle Americhe tanto ricche, ma tanto lontane. Imparavi che l’acqua deve essere versata a poco a poco, così da ottenere un impasto morbido, ma abbastanza consistente da permettere la lavorazione successiva, perché le arepas non si impastano come il pane, ma come se fosse un “nuovo pane”; dentro ci trovi il Venezuela, ma anche gli aneddoti di vita quotidiana. La forma si ottiene impastando a mano, ricavando prima delle palline e successivamente schiacciandole per formare dei dischetti alti circa 5 mm. Poi si scalda una piastra o una padella (con o senza olio, purché non attacchi) e si mettono le arepas a cuocere per pochi minuti, girandole per uniformare la cottura. A Caracas e dintorni, si mangia l’arepa reina pepeada: caraota negras (fagiolo nero locale), uova strapazzate, formaggio, prosciutto, carne mechada o pollo e avocados. Sull’isola Margarita, l’arepas viene riempita con i prodotti del mare: polpi, gamberi o carne di squalo, come il cazon o il majarro carite. Perdonatemi se io le preferisco con tonno e maionese.
Alla varietà di stili si abbina la varietà di momenti. Le arepas vengono consumate di giorno come di sera, nei pasti lunghi come negli spuntini, sul luogo di lavoro come allo stadio. I miei zii, in Venezuela, le cucinavano poco, preferivano ancora il pane italiano e la pasta con il sugo fatto in casa; quando sono rientrati la prima volta, dopo una traversata in mare lunga quasi un mese, si sono portati in Venezuela, la macchina per fare la salsa e la macchinetta per fare il caffè. Le arepas le mangiano ogni tanto, con il cibo “quotidiano” preferiscono non dimenticare di essere italiani. Ed ancora, mentre gli italiani, quando escono dalla discoteca cercano ancora caffè e cornetto, in Venezuela, i ragazzi, dopo essersi scatenati in discoteca o aver goduto di un concerto, mangiano arepas. Le arepas vengono vendute ovunque, dai semplici chioschi da strada ai ristoranti di lusso, e servite per ogni tipo di cliente. Se l’Italia è il Paese che affonda le radici nella cucina mediterranea; il Venezuela è una Terra fondata sull’arepa. Ed ancora oggi, per gli indigeni, oseremmo dire che vale più il mais che l’oro. E così anche la politica venezuelana ha adottato, in tempi non troppo lontani, misure a sostegno delle arepas. I politici venezuelani hanno capito che più di ogni altra misura, sociale culturale od economica, è il controllo “delle arepas” che produce il consenso politico ed il controllo delle masse indigene.
Qualche anno fa, Hugo Chavez si è scagliato contro “La speculazione del mercato capitalista”, introducendo l’Arepa Socialista; prezzo fisso a 7,50 bolivares e materia prime garantite dallo Stato. Le Arepas Socialistas si sono diffuse ampiamente; si sono moltiplicati i locali specializzati (areperas) anche a Puerto la Cruz, Maracaibo e La Guaira, raggiungendo velocemente una “nuova” clientela. Eppure, i critici ed i giornali anti-Chavez, si sono scagliati contro “la politica delle arepas”, definendolo un sistema inefficiente tenuto in vita artificialmente col sudore dei cittadini. Chi è andato in Venezuela in quel periodo, ha potuto toccare con mano: materie prime scadenti e di quantità scarsa; personale di servizio mal retribuito; dipendenti che lamentavano di essere in pochi e poco “competenti” per “impastare” e gestire i flussi di consumatori. Nonostante tutto, però le Areperas Socialistas hanno fatto la fortuna di Chavez, hanno venduto tantissimo con code chilometriche davanti ai distributori.
Oggi, mentre il Venezuela di Madauro, si presenta sempre meno sicuro e sempre più isolato dal resto del mondo, con l’istallazione di lettori di impronte digitali nei negozi alimentari, per razionare gli acquisti dei cittadini, e l’introduzione della tassa sull’aria, le arepas venezuelane sono state protagoniste della “Festa dell’Emigrante” santaninfese. Le foto che circolano sul web trasmettono: l’immagine di un sindaco, che versa farina di mais come se si trattasse di “benedire” una pietra angolare; si mescola tra parenti, amici ed altri amministratori per “distribuire” il pane venezuelano; locali comunali adibiti a cucina; amministratori che per una sera diventano “impastatori” ed i precari comunali che fanno turni “notturni”.
Così domenica 27 luglio, nella giornata che Santa Ninfa dedica ai suoi connazionali è nata forse la “arepas santaninfese”? E cosa copieranno prossimamente i santaninfesi dalla politica venezuelana, la tassa sull’aria o lo schedario con le impronte digitali? E mentre, la povera statua di Simon Bolivar, si nasconde dietro inferriate arruginite, con peggior fortuna della statua del migrante a Partanna che è stata collocata in una piazza “centrale”, senza non qualche polemica, mi chiedo: il nuovo stile della Festa dell’Emigrante santanininfese è piaciuto? E soprattutto, cosa ne pensa la comunità santaninfese che vive in Venezuela? Magari avrebbe preferito qualcosa in stile “Casa D’Italia”? Avrebbe preferito, sedersi, ascoltare, sentire e ricordare ciò che ha significato l’emigrazione di una parte della comunità santaninfese in terra straniera? Avrebbero i santaninfesi voluto rivivere i sogni e le speranze infrante, i successi ed i traguardi conquistati, da tanti uomini costretti a lasciare la loro terra ed i loro affetti, alla ricerca di un mondo migliore?
L’emigrazione, non è una festa; è una festa il ricordo di gesta e di uomini, perchè la condizione di immigrato, non è mai piacevole: un uomo diviso tra due mondi e due stili, il cui trionfo dipende dalla forza con cui trae insegnamento dalle radici che si porta dentro, ed in quelle radici trova il coraggio di non arrendersi. Ma in fondo loro, i nostri connazionali, che vivono aldilà dell’oceano, tutto questo lo sanno bene. I pionieri di ieri stanno trasmettendo ai loro figli i valori che sono stati la bussola della loro condotta e di quella dei loro padri. Stanno facendo circolare quel “siciliano” che noi abbiamo dimenticato. Stanno tramandando il coraggio, il rispetto per le “istituzioni” civili e religiose, stanno educando alla condivisione e alla fratellanza. Ecco perché rispetto la comunità santaninfese in Venezuela; al pari di quella stanziata a New York, e tutti gli immigrati di ogni paese, quelli che non si consegnano alla terra straniera, ma uniscono lo spirito e la passione dei “nuovi mondi” alle antiche tradizioni dei nostri nonni. Nella festa dell’Emigrazione dovrebbe celebrarsi tutto ciò.
E mentre altri comuni lo fanno, da molto più tempo rispetto a Santa Ninfa, e riescono ad unire momenti culturali e sociali, al gioco, alla danza, alla musica e alla cucina, per consentire un incontro vero, per ricordare la storia e l’esperienza vissuta all’estero da tanti siciliani. A Santa Ninfa cosa e chi è stato celebrato e festeggiato il 27 luglio?
Batman