I bambini sono stati sempre il perno principale su cui giostra tutta la famiglia. Una volta tutti i lavori erano eseguiti manualmente, per questo era necessaria una numerosa mano d’opera; per soddisfare questa necessità, nelle famiglie la prole era sempre numerosa (tutta quella che mandava Dio). Purtroppo la prole richiedeva cibo e panni fino all’età di poter lavorare. Per questo motivo i bambini erano considerati quasi degli incomodi. Così la morte di un bambino di qualche mese non recava ai genitori molto dolore, perché, si diceva, era ancora un angelo, che andava direttamente in paradiso, ma era anche una bocca da sfamare in meno perché ancora improduttivo. Quando invece erano già grandicelli e rappresentavano una forza lavorativa che aiutava la famiglia a crescere, allora erano presi in maggiore considerazione ed amati di più. Nell’educazione familiare i genitori lasciavano a desiderare: il padre lavorava, mentre la madre badava alla casa e alla numerosa prole; inoltre aiutava il marito in certi lavori. A loro bastava insegnare l’ubbidienza cieca verso i genitori, il timore verso Dio e il rispetto dei proverbi antichi, “che non sbagliano mai” (si diceva). Al resto pensavano i nonni. Infatti i proverbi dicevano: “Onura sempri ed ascuta lu patri, chi a tia ti vonnu beni puru li petri” – “Timisci Diu e rispetta li Santi, chi masinnò pi beru ti ni penti” – “Di l’anticu pigghiani sempri, chi sapi assai e giuva a tutti tempi” – “Travagghia attentu, travagghia custanti e cu la fami mai nun ci apparenti”.
Allora le banche erano poco conosciute dal popolo, anche perché i sudati risparmi servivano sempre per qualche imprevisto e non restava niente da mettere in banca; tuttavia ai bambini s’insegnava il risparmio, dando loro un “carruseddu” (salvadanaio di terracotta) dove poter conservare qualche soldino.
Nella vecchia civiltà maschilista non c’era posto per la donna, nemmeno nell’ambito del lavoro. Pertanto, i genitori preferivano la nascita di un figlio maschio. Così, in segno augurale si soleva dire: “auguri e figghi masculi”. Allora, per una famiglia povera, la nascita di una femminuccia rappresentava un vero castigo di Dio; infatti c’era una bocca in più da sfamare, una dote da preparare per il matrimonio e delle braccia in meno per il lavoro. Inoltre un padre che aveva avuto solo figlie femmine, era disperato, perché con lui si sarebbe estinto il suo cognome, portato con tanto orgoglio ed ereditato dai suoi avi. Un antico proverbio diceva:- Cu bona reda voli fari, di figghia fimmina avi a cuminciari, ma all’annu nun ci avi arrivari.
Cioè la nascita di una femmina, come primogenito, era un buon auspicio, purché questa morisse entro l’anno. Così, spesse volte succedeva che la nascita di una femminuccia provocava in famiglia dolori e piagnistei (una bocca da sfamare in più, la dote da preparare, un’educazione severa seguita da una stretta sorveglianza). Nata la femminuccia si incominciava a preparare la dote; un proverbio a tal riguardo diceva: “la figghia ‘nta la fascia e la doti ‘nta la cascia”. I più giovani non sanno che i neonati si fasciavano con una lunga fascia di lino, lasciando solo la testa scoperta. Siccome a causa della denutrizione ai bambini crescendo si arcuavano le gambe, “li cosci torti” o la schiena con la formazione della gobba, c’era la credenza che con una stretta fasciatura si risolvesse ogni cosa.