Cane di compagnia e randagismo

Una volta la famiglia era formata dal padre, dalla madre, da una numerosa prole, spesso dai nonni e a volte dai bisnonni. Le famiglie più povere spesse volte coabitavano in un monolocale. Un amore sincero ed un alto senso del dovere dettato dalla legge di natura, tratteneva unite queste persone. Oggi, per una serie di circostanze dovute allo stile di vita moderna, si assiste passivamente al disgregamento della famiglia tradizionale. Purtroppo l’apparente libertà conquistata ha un duro prezzo da pagare. A queste persone, infatti, viene a mancare l’affetto, la pace e l’interesse alla vita, che solo una struttura familiare, completa di prole, può dare. Subentra, quindi, la solitudine, la depressione, l’uso di psicofarmaci…Qualcuno, per surrogare queste mancanze, rimedia adottando in casa dei cuccioli d’animali, preferibilmente di cane. Queste povere bestie vivono all’ombra dei loro padroni, e danno tutto il loro amore senza chiedere niente. Fare tutti i vaccini, curare, comprare i migliori mangimi, non significa voler bene a un animale; l’animale ha bisogno di affetto e di vivere in un ambiente naturale, il più vicino possibile a quello che la natura ha riservato loro alle origini del mondo. A dispetto delle leggi ed associazioni per la protezione degli animali, le campagne, ma anche le città, pullulano di cani randagi, con continuo pericolo per qualche passante. Purtroppo ce ne sono molti legati alla catena dalla nascita ed altri rinchiusi dentro magazzini fino alla loro morte. Alle Autorità preposte è noto questo fenomeno, lo sa anche la stampa, ma nessuno si muove fino a quando succede qualche incidente. Dopo, sempre “all’italiana”, incominciano le inchieste; i giornalisti versano fiumi d’inchiostro, si cercano le cause, quindi tutto rimane come prima. Il randagismo è sempre esistito. Ricordo che intorno agli anni ’50 circa, i rifiuti urbani si buttavano e giacevano per strada a fianco del marciapiede in posti abituali “li munnizzara” anche per più giorni. Per quegli anni di magra c’era poco di commestibile da trovare; tuttavia cani, gatti, topi e mosche, vi frugavano liberamente. Allora, ogni mattina passava una guardia urbana assieme a “lu ‘ncoccicani” (l’accalappiacani), per catturare qualche cane randagio per portarlo al canile. Qui, dopo un paio di giorni veniva eliminato. Questo sistema drastico allora era necessario per eliminare il randagismo che era la causa della “rabbia” o “idrofobia”, una malattia mortale trasmessa fra i cani, ma anche da un cane all’uomo col morso. L’epidemia da rabbia sembra scomparsa, ma nella zona alpina succedono spesso casi isolati, che potrebbero diffondersi se non si provvede in tempo. Nel corso di una battaglia contro il randagismo le Autorità furono spinte addirittura a porre fra i rifiuti urbani “li baddottuli” (delle esche avvelenate). In questi ultimi anni, tramite la stampa quotidiana, abbiamo sentito casi di cani che hanno sbranato gli stessi padroni o, qualche caso di branchi di cani che hanno fatto di peggio. E’ inutile rivangare nei particolari, poiché la stampa l’ha già fatto abbondantemente. Oggi le Autorità, a parte i canili comunali, riescono a fare ancora ben poco per frenare il fenomeno, anche perché non c’è cooperazione da parte dei cittadini. Chi adotta un animale da compagnia alla fine si stanca di accudirlo, lo trascura e lo abbandona al suo destino. Fortuna permettendo, questi animali si trovano un altro padrone, viceversa diventano cani randagi o muoiono schiacciati dalle automobili.Quando uno o più cani disturbano il vicinato, incominciano i guai.Volendo procedere per vie legali, bisogna rivolgersi ad un giudice con regolare denuncia, testimonianze, e sopportare spese e lungaggini burocratiche, oltre all’odio del vicino, padrone del cane. Per questo motivo il cittadino preferisce la “giustizia fai da te”. Così, inspiegabilmente, l’animale oggetto della disputa, muore: “Ha preso veleno” dirà il proprietario; ed il caso è subito chiuso “all’italiana”.

Vito Marino


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