SANTA NINFA – C’era una volta il Carnevale Santaninfese che non iniziava il “giovedi grasso” come nel resto del mondo, ma almeno tre giovedì precedenti. Prima del giovedì grasso si festeggiava il giovedì di “li parenti”, dove i parenti più stretti, di solito fratelli e primi cugini con le rispettive famiglie, organizzavano feste danzanti. Prima di “lu giovedì di li parenti” c’era “lu giovedì di li cummari”, dove a riunirsi erano gli amici più stretti. La gioiosità e l’armonia erano talmente contagiose che le baracche santaninfesi negli anni ‘80 ospitavano gente da tutte le zone limitrofe. Persino al Magistrale o al Commerciale di Partanna e di Castelvetrano, in quella giornata, i professori chiudevano un occhio di fronte all’assenza di massa. E prima di “lu giovedì di li cummari” c’era quello “degli zoppi” che in pochi festeggiavano, ma che tutti vivevano come il “sabato del villaggio” di leopardiana memoria. Infatti, “lu giovedì di li zoppi” era il giovedì che apriva le danze e fomentava l’euforia. Fino agli anni ‘90, anche dopo la rimozione delle baracche, sostituite dai garage più ampi e spaziosi, quei giovedì che precedevano il Carnevale rappresentavano il motivo per incontrarsi, per scambiare quattro chiacchiere per chi non sapeva ballare, per fare “ammuino” e per divertirsi anche nel cucinare secondo la tradizione paesana. I giovedì duravano un’intera giornata, con le donne già di prima mattina ai fornelli per preparare fritti misti, polpette, stufati, “pasta cu l’agghia” e perfino dolciumi. Non mancavano mai o li cassitteddi o li sfingi. E con l’impasto delle cassattedi “chi suvicchiava” nascevano le moderne chiacchiere. Gli uomini nel frattempo arrostivano, al vento e alla pioggia, “sassizza” che troppe volte era o troppo cotta o troppo cruda. Ma il freddo di quelle giornate passava in fretta, perché ci si riscaldava tra un tango ed una polca, per chiudere senza fiato con la mitica “contradanza”. E le vecchie canzoni rappresentavano il sottofondo perfetto per rubare un bacio nel buio delle stanze, tra una “strinciuta” ed un “ammuttini”. Erano i tempi i cui ci si divertiva con poco, ma che aveva dentro la “sostanza” delle cose. Poi c’erano le serate di Carnevale e si aprivano le porte della Società Operaia, del Circolo e della Casa del Popolo. Con poche lire si acquistavano i toast ed una bottiglia in vetro di “azzusa”. Il sapore della sottiletta di quelle serate è dentro i ricordi di intere generazioni del Belice. Di quello spirito cosa è rimasto? Subito dopo la prima ricostruzione, la Società Operaia ed il Circolo Civile vennero ospitati dentro una parte di quei locali che oggi si chiamavano “Centro Sociale”. Per ballare i soci non pagavano, ed i “non soci” venivano ammessi chiudendo un occhio. I giovani e “i non socii” dei circoli privati, si recavano in massa alla “Casa del Popolo”, dove per entrare si pagava un biglietto. Gli organizzatori si facevano i conti perché il costo fosse “equo e sostenibile”. Tutte le serate o quasi “arrinisciano”, perché tanta era la voglia di stare insieme e divertirsi. Finita la ricostruzione, eliminate completamente le baracche, e chiusa la Casa Del Popolo, per diversi anni il Carnevale Santaninfese è stato spento e morto. I giovani e “i non soci” dei circoli privati non avevano più una struttura in cui organizzare, e spesso andavano fuori a riempire le discoteche limitrofe. Per anni alcuni “impetuosi” hanno chiesto che i locali del Centro Sociale fossero utilizzati per organizzare il Carnevale. Per anni, l’amministrazione comunale utilizzando tecnicismi ha chiuso le “porte”. Poi, dall’anno scorso con un bando pubblico i locali del Centro sociale vengono affidati ad un’associazione in concessione onerosa e solo con adeguate garanzie economiche. L’associazione “senza scopo di lucro” è quindi costretta a pagare il comune per svolgere un’attività ludica di riscoperta delle tradizioni. Dei privati sono costretti a sborsare denaro per risuscitare il Carnevale Santaninfese e per impedire le migrazioni carnevalesche di massa. Non c’è nulla di male. Eppure occorre riflettere mettendo su una bilancia: da un lato, le tradizioni, il concetto di luogo pubblico aperto a tutti, la sicurezza dei cittadini; dall’altro, iniziativa economica e utilizzo oneroso dei beni pubblici. E su quest’ultimo dato, ancora fermarsi a riflettere sul fatto che: per la concessione dei locali, l’associazione che anima il Carnevale, deve pagare; mentre l’associazione che utilizza i locali per l’altare di San Giuseppe no. Così come bisogna guardare che a Capodanno si può ballare e brindare gratis, mentre a Carnevale bisogna pagare un biglietto; che per il Carnevale Estivo la piazza è aperta a tutti, mentre a Carnevale il centro sociale è aperto solo dietro “compenso”. Viviamo in un tempo in cui la crisi economica ci impone di riflettere su ciò che conta veramente, se vogliamo una società i cui i beni pubblici vengano gestiti dai privati “onerosamente” od invece fondata sul principio per cui i beni pubblici devono essere accessibili a tutti a parità di condizioni e nel rispetto di regole chiare. La prima a dover scegliere è la politica praticando scelte coerenti. Batman
C’era una volta il carnevale santaninfese
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