I ragazzi della civiltà contadina

Oggi sono molto gravi i problemi che riguardano i giovani e il loro comportamento nella società e nella scuola; la loro educazione da parte dei genitori e della scuola, per inserirli nella società non è adeguata.  Ai ragazzi di un tempo passato, diciamo intorno al 1950, la vita offriva ben poco; già da piccoli dovevano aiutare i genitori nei lavori di campagna o nelle botteghe artigianali dei padri. La scuola, consapevole di questa realtà iniziava le lezioni anche il 10 ottobre per permettere di dare aiuto in famiglia durante la vendemmia. Il ragazzo di quegli anni sognava di raggiungere la maggiore età, per potere frequentare le case di tolleranza, per andare militare e conoscere un poco l’Italia settentrionale ed il suo tenore di vita più elevato, quindi aprirsi una sua attività, svincolarsi economicamente dalla famiglia ed infine sposarsi con una brava ragazza possibilmente con un appezzamento di terra come dote. Per una ragazza chiusa in casa, perché così imponeva la civiltà maschilista, doveva rispettare maggiori limitazioni alla sua  esistenza e doveva obbedienza ai genitori e ai fratelli. Essa si sposava giovane, per paura di restare “schetta” (nubile), col problema della sopravvivenza. La donna allora restava in casa a fare la  casalinga e, senza lavoro non poteva sopravvivere. Da ragazzina giocava con “la pupa” (la bambola) e, crescendo giocava a fare la mamma. La sua unica aspirazione era il matrimonio con un uomo comprensivo, per potersi assicurare il mantenimento per tutta la vita, ed avere tanti figli. Fra questi sogni passavano i giorni, ma anche gli anni della loro giovinezza; sposandosi giovani esse si trovavano adulte ancora prima di aver capito di essere giovani. Allora, anche per una famiglia povera, si accettavano tutti i figli che Dio mandava loro, ma la nascita di una femminuccia rappresentava un vero castigo di Dio; infatti c’era una bocca in più da sfamare, una dote da preparare per il matrimonio e delle braccia in meno per il lavoro. Inoltre un padre che aveva avuto solo figlie femmine, era disperato, perché con lui si sarebbe estinto il suo cognome portato con tanto orgoglio ed ereditato dai suoi avi maschi. In merito un proverbio diceva: – Cu bona reda voli fari, di figghia fimmina avi a cuminciari, ma all’annu nun ci avi arrivari. Cioè la nascita di una femmina, come primogenito, era un buon segno, purché questa morisse entro l’anno. Per imparare un mestiere i ragazzi erano assunti dal “mastru” della bottega artigianale, come “picciottu”, che significa ragazzo, ma nel caso specifico significava apprendista. Dopo alcuni anni di apprendistato e aver raggiunto una certa esperienza oltre ad un’età più matura, il ragazzo assumeva la qualifica di “giuvini” che vuol dire giovane ma che significava il primo gradino di operaio.   

Vito Marino


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