Rubiamo da Domenico La Magna: La parola ‘nciùria significa nel senso letterale ingiuria, dal latino “iniuria(m)”, col significato di “fuori legge, ingiusto“. Un composto che viene dal privativo “in-” e dal sostantivo “ius, iuris”, diritto. Nel significato più comune, l’ingiuria è quindi un’offesa, un insulto alla dignità altrui. In siciliano, tuttavia, il connotato offensivo in parte si perde e la parola assume una sfumatura più neutra, equivalente in italiano al soprannome, proprio o di famiglia. Qui ci occupiamo delle ingiurie – per così dire – demografiche, collettive, relative non ai singoli, ma ad interi paesi. Delle ingiurie su Castelvetrano da parte dei partannesi, evitiamo di parlarne perché già abbiamo dovuto sopportare due denunce andate a vuoto da parte di un personaggio che è come lu “spizzieddu” che si occupa di benessere, di politica, di tutto e che soffre di una eccessiva sovrapposizione: onnipresente nella sua spigolosità. Di Salemi, arroccata che spara un vento impetuoso che i partannesi subiscono cui è nota la giaculatoria: “Si caminannu/Viditi ‘na muntagna di issu,/chissu è Salemi/passatici arrassu./Sunnu nimici di lu Crucifissu/Amici di Giuda e di lu Caifassu”. Eppure a Salemi vivono le salemitane, che per tradizione sembra che possiedano i lati B più belli della Sicilia per via di quel paese tutto salite ripide e discese rapide sulle quali si trotterella e il trotto tonifica i glutei.
Parliamo dei partannesi, la loro collocazione è: “babbi partannisi”. Il significato di babbo qui non ha niente a che vedere con la paternità e si può tradurre semplicemente con babbeo. L’origine è nota. Una famiglia di partannesi va in campagna per un desinare sull’erba. Portano tutto il necessario con sé – antesignani dei turisti tedeschi d’oggi -: pane (enorme di quelli fatti in casa), companatico, sardine o olive, vino e l’immancabile pasta al forno. Ad inizio pranzo si accorgono che hanno dimenticato il coltello. Mugugni, rimproveri, urla, gita rovinata. Si torna a casa. E tutto questo per la mancanza di un coltello. In realtà le motivazioni vere sono altre. E attengono a quel modello culturale e antropologico che è fatto di regole e doveri non trasgredibili secondo i quali il pane va mangiato usando il coltello, i regali in busta, la passeggiata con soli uomini, lo sparlìo e l’invidia verso chi si è fatto da sé. Questo è l’ordine dei partannesi, mangiare senza coltello non gli è proprio e tutte le loro esperienze investono come una rete gigantesca tutte le mosse, tutti i pensieri, tutti i comportamenti di questo popolo e cerca stabilità – e la trova – in ciò che è comune. Mangiare senza coltello non è astenersi dal mangiare, ma includere una estraneità, un’intrusione, un allarme, forse l’arrivo del caos.
Qui vigono le regole, gli ordini, le classificazioni: dure, immarcescibili, irrazionali ma condivise a tal punto che si nasce non solo tra le regole, ma dalle regole. Il mondo di Partanna poi è un mondo legato alla permanenza: chi nasce contadino farà il contadino così come ha fatto il padre e il padre di suo padre e i futuri figli che saranno padri con figli contadini e così in futuro. E della stessa permanenza godono i principi, i commercianti, gli impiegati, i nati con la camicia e i nati in mutande. La promozione sociale intesa come miglioramento della posizione in società, non è riconosciuta e neanche conosciuta. I neuroni dei partannesi sono tutti impegnati a fare bella figura e questo ideale ne occupa la mente e il cuore. Vige nel borgo un modello di logica irriducibile che è la logica resa nota da Pangloss nel Candido: i partannesi vivono nel migliore dei mondi possibili. Non si deve cambiare e soprattutto non si può. La reputazione ne risentirebbe. E se la reputazione è la rappresentazione condivisa dalla maggioranza della comunità, ed è costituita da un insieme di convinzioni mai verificate che si formano su un individuo e i suoi comportamenti visibili, qui più che altrove avere una cattiva reputazione ha carattere permanente, generazionale, riempie terra e cielo, il mare no, perché qui gli abitanti sono isolani che temono il mare, tutti ostriche attaccate agli scogli. Qui la reputazione è eterna, ed ereditaria. Qui il valore fondante è la conformità. Tutto il resto discende da questo valore, dall’adeguamento il più passivo possibile al modello sociale imperante. Qui il consenso degli altri è importante. I partannesi non vanno a messa solo perché fedeli, ma perché il non andarci sarebbe non conforme, significherebbe accogliere l’estraneità che qui non trova posto adeguato nell’ordine vigente. E scatterebbe la sanzione sociale. Il Giudizio universale può aspettare. La regola viene ripetuta non solo nei discorsi, ma nei comportamenti, siano essi minimi come la scelta di una maglietta o un paio di jeans, sia nelle scelte importanti come un percorso di studi: basti vedere tre giovani che passeggiano: due sono maestri elementari (alcuni molto elementari), il terzo è professore di educazione fisica. Nella presentazione di sé stanno molto attenti a svelare ciò che vogliono si diffonda: l’umiltà in primo luogo. E se qualcuno si eleva dalla massa e sale qualche gradino più in alto e lo racconta per gioia di condividere, viene subito segnato a dito. In realtà i partannesi non conoscono la vera umiltà. Confondono umiltà e modestia. L’umiltà vera si manifesta nei comportamenti, nelle frequentazioni, nella capacità di includere tutti e ciascuno. Qui se uno ha un curriculo che va oltre questo mondo piccolo e senza idee proprie ed effettua una presentazione di sé realistica e controllabile, va condannato. “Cu s’avanta cu li denti un c’è nenti”. E i modesti, che non sono umili, ma mediocri sono nati tali, con una ristretta cerchia mentale che apparterranno sempre al conformismo. L’umiltà è una virtù, ovvero una disposizione d’animo volta al bene; la capacità di una persona di eccellere in qualcosa. Eccellere nell’essere umano, nel riconoscere il proprio potere sapendo di non essere onnipotente, nel rispettare cose e persone. La persona umile ha studiato e proprio perché ha studiato continua a studiare. I partannesi non amano lo studio. L’unico libro che si leggeva era l’Amante di Lady Chatterley nelle parti in cui si scopa. Erano le pagine più consunte del libro di David Herbert Lawrence. Chi è umile non si nasconde. Chi è modesto sì. Essere umili significa far tesoro di ciò che ci viene dato e coltivarlo per crescere e diventare migliori. Basterebbe leggere la parabola dei talenti per capire la differenza tra umiltà e modestia che è propria dei modesti. La persona umile che sa che ha ricevuto molti talenti, sente il dovere di non “annacarisi”, ma di muoversi in avanti, sempre verso un futuro migliore del presente. I modesti si limitano da soli e con ciò si sentono giustificati a fare lo stretto necessario. Il modesto si accontenta. Il modesto è mediocre. Il modesto rimane nei canoni stabiliti da altri, non emerge, non si rivela, non vive la sua vita. E’ conforme: prima a Culicchia, poi a Catania, ora… speriamo di no. Qui si premia l’onore. L’onore è disuguaglianza: perché qualcuno abbia onore è essenziale che gli altri non lo abbiano. I partannesi non cercano dignità – valore universale e ugualitario intrinseco alla dignità umana o della dignità del cittadino. E così qui il maestro elementare viene chiamato professore, il geometra ingegnere, il carabiniere appuntato, l’odontecnico dentista. Se hanno una buona reputazione meritano l’onore di essere più titolati che altri. Ogni reputazione che si mantenga abbastanza stabile è riassunta nel proverbio: fatti la fama e va’ curcati, fatti una buona reputazione e potrai dormire sonni tranquilli. E la dignità? E’ dignitoso chiedere di essere inclusi in una lista e, rifiutata,- passare alla lista opposta?
Vito Piazza
psicologo sociale e ispettore MIUR emerito