CASTELVETRANO – e ricordo con nostalgia la civiltà contadina, scomparsa intorno agli anni ’50, devo pur ammettere che allora si peccava di eccessivo maschilismo. Era il tempo di “Padre padrone” di Gavino Ledda e di “Un delitto d’onore”di Giovanni Arpino. Allora la donna non poteva uscire da sola o senza il consenso dei genitori o del marito e doveva sposare in maniera insindacabile l’uomo prescelto dai genitori, secondo una valutazione economica della dote. Dopo il matrimonio essa, per norma di legge, doveva seguire il marito e ubbidire ai suoi comandi. Anche le norme di legge erano tutte a favore del sesso forte. In Italia, fino a qualche decennio fa, l’art. 144 del Diritto di Famiglia citava espressamente: “Il marito è il capo della famiglia, la moglie segue la condizione civile di lui, ne assume il cognome ed è obbligata ad accompagnarlo ovunque egli crede opportuno di fissare la sua residenza”. Nell’uxoricidio, l’uomo godeva di attenuanti, considerando “delitto d’onore” l’omicidio di gelosia. Inoltre, la “ius corrigendi” consentiva al marito di potere picchiare legalmente la moglie, “per correggerla”. Fino al 1919 la moglie non poteva disporre dei propri beni senza l’autorizzazione del marito e non aveva credibilità nelle testimonianze in tribunale. Tante volte doveva subire gli scatti d’ira del marito che, per ristabilire la gerarchia in casa, l’assaliva letteralmente con ingiurie e botte. Le botte erano considerate necessarie, perché, come sosteneva un proverbio, “fimmini e scecchi, vastunati chi s’addrizzanu”. Le carezze si lasciavano desiderare, perché “la muggheri è comu la atta, si l’accarizzi idda ti gratta”. Questi comportamenti valevano anche per i figli. “Li picciotti” non avevano nessun diritto a parlare o a protestare nei riguardi delle persone adulte; addirittura il fratello più piccolo doveva ubbidire a quello più grande e gli doveva dare anche del “vossia”. Un proverbio in merito diceva:- “Li picciotti hannu a parlari sulu quannu piscia la addina”, cioè mai. Questa realtà storica è confermata dalla seguente strofa:- “Sugnu patri e sugnu patruni / aiu tortu e vogghiu raggiuni”. Tuttavia la donna continuava (o doveva continuare) ad avere rispetto e devozione per il marito, perché l’uomo era considerato la colonna portante della casa; un proverbio diceva: “Casa senza omu, casa senza nomu”. Inoltre essa raramente andava a scuola. Considerata un’incapace, doveva restare in casa a fare la calza e non aveva diritto al voto. E’ stato il 02/06/1946 che per la prima volta ha votato. Allora nell’azienda familiare artigiana o contadina occorrevano braccia forti maschili per lavorare: “Tanti vrazza Diu li binirici”, si diceva. Quando nasceva una femminuccia in casa spesso c’era un piagnisteo, anche perché la madre doveva iniziare subito a preparare la biancheria per la dote; un proverbio allora diceva: “La figghia ‘nta la fascia e la doti ‘nta la cascia”. Sembra assurdo, eppure, “patruni e domini” (padrone e signore, per come si diceva nelle nostre parti) aveva un comportamento cavalleresco verso la donna altrui: le dava sempre la precedenza e si alzava per cederle il posto. Perfino la mafia e la delinquenza comune non osavano recare danni a donne e bambini. Tanto rispetto probabilmente proveniva dall’influenza della ricca letteratura francese, riguardante le gloriose gesta dei Paladini di Francia, con le loro regole di cavalleria molto favorevoli verso i deboli, rimasta in maniera indelebile nella nostra cultura.
Vito Marino