La “quacina” (la calce) ancora oggi è utilizzata come malta per l’edilizia. Durante la civiltà contadina, trovava un’infinità di altri utilizzi: Pietre di calce viva si buttavano nelle cisterne e nei pozzi, per potabilizzare l’acqua, spesso inquinata per la presenza indesiderata di pericolosi parassiti, come la sanguisuga. In agricoltura, i nostri nonni per disinfettare le piante contro gli attacchi di parassiti di origine vegetale (funghi) usavano calce semplice o con l’aggiunta di “silestru” (solfato di rame) sotto forma di “poltiglia baldolese”, sciolti in acqua. La calce è, pertanto, un anticrittogamico naturale meraviglioso, ma poco usato dalla nostra civiltà del benessere, forse perché costa poco. Il latte di calce veniva usato anche per imbiancare gli edifici, sia all’esterno che all’interno. Per tinteggiare l’interno si aggiungevano i colori, che variavano a seconda della destinazione delle stanze. La civiltà del consumismo ha apportato prodotti chimici, ottimi ma dannosi per la nostra salute. Ricordo che a Castelvetrano prima degli anni ’50 i prospetti di tutte le abitazioni erano imbiancati e facevano un netto contrasto meraviglioso con i mattoni di tufo degli architravi delle porte, delle finestre e delle arcate dei cortili, lasciate appositamente al naturale. In onore del modernismo, abbiamo perso anche questa nostra tradizione, lasciataci dalla dominazione araba e da quella spagnola. Abbiamo così buttato una ricchezza, tanto valorizzata invece in Spagna, dove nella provincia chiamata “pueblos blancos”, tutti gli edifici sono imbiancati. Questo bianco vistoso, in contrasto con il giallo del tufo, il nero delle inferriate e il rosso dei gerani appesi ai muri, danno una caratteristica unica che attira moltissimi turisti. Il colore bianco, oltre a deliziare lo sguardo, per come è noto respinge i raggi caldi del sole, mantenendo l’interno delle abitazioni più fresche d’estate, con risparmio energetico. Quando durante la civiltà contadina si svuotavano i pozzi neri, per disinfettare la melma si buttava la calce viva. Siccome il materiale estratto era considerato il migliore concime per gli orti, la calce serviva anche per neutralizzare l’eccessiva acidità (ph) dannosa per l’agricoltura. Fino a pochi decenni fa operavano a Castelvetrano “li carcari” (le fornaci), dove abili artigiani trasformavano, attraverso un processo di cottura, la pietra calcarea (carbonato di calcio) in calce viva (ossido di calce) per l’edilizia. Le fornaci si presentavano a forma di torri circolari; per resistere alle alte temperature, l’interno veniva rivestito con mattoni di terracotta, mentre per neutralizzare le spinte delle forze verso l’esterno, venivano realizzate nel sottosuolo con la sola estremità superiore fuori del terrapieno. Dentro queste costruzioni le pietre più grosse si sistemavano per prime a forma di volta, lasciando sotto lo spazio per introdurvi la legna da bruciare; quelle più piccole si collocavano sopra. Il fuoco veniva alimentato ininterrottamente per diversi giorni (con un minimo di tre giorni) in rapporto alla grossezza del forno e, quindi, alla quantità di pietra da cuocere. Come combustibile si usavano prodotti locali della campagna, come fascine di legna di ulivo, ma anche tronchi, vinaccia e sansa d’olive. La temperatura poteva raggiungere i 120 – 180 gradi. La carbonella che restava, veniva spenta e venduta per il riscaldamento domestico. Le pietre già “cotte”, appena raffreddate, si toglievano manualmente dalla parte superiore. Le pietre di calce viva, così ottenute, venivano immerse in vasche o fusti pieni d’acqua, al fine di trasformarle in calce spenta. Come reazione chimica avveniva un notevole aumento della temperatura ed emanazione di vapori. Oggi la calce per l’edilizia si vende già pronta per l’uso (grassello), in sacchi di plastica; per l’agricoltura, poco usata, si vende in polvere in sacchi di carta. Le pietre di carbonato di calcio erano facilmente reperibili nella zona attorno a Castelvetrano. Le fornaci per la calce erano concentrate, secondo le tradizioni medievali, in Via Marsala, di fronte al cimitero; io mi ricordo quella di Clemente e quella di Giurintano. Questi vecchi forni chiusi perché tecnicamente superati ed antieconomici, sono scomparsi senza lasciare traccia del loro operato.
Vito Marino