L’economia della civiltà contadina era condizionata dalla disoccupazione senza ammortizzatori sociali e dal raccolto sempre incerto, perché vincolato al buono ed al cattivo tempo. Da qui nasceva il morboso attaccamento alle poche ricchezze possedute: “La robba”.
Spesso solo sognata, la roba era considerata la sola àncora di salvezza, il toccasana per ogni male, una realtà incontrastata a cui il siciliano sacrificava la sua intera esistenza. Ne scaturiva, pertanto, una corsa affannosa, ma di solito infruttuosa, ad accumulare beni.
Per il contadino di allora, l’uomo e la sua vita non avevano nessun valore, solo la terra contava ed aveva un valore: “Lu patri si nni va la robba arresta” (l’uomo, può morire, la terra deve rimanere).
Per questa arcaica concezione della vita e della morte molti “picciotti” sono stati spinti a seguire con entusiasmo Garibaldi per scacciare i Borboni. Garibaldi, infatti, aveva promesso di dividere fra i contadini la terra dei latifondisti, incolta e abbandonata.
Vincenzo Consolo in Pietre di Pantalica così descrive i contadini durante lo sbarco degli alleati durante la Seconda Guerra Mondiale:-
“…pastori e contadini. Immobili, logori come la terra su cui stavano, piegati con le zappe a rompere la crosta, sembrano indifferenti alle colonne di carri armati, alle truppe che passavano sulle trazzere bordate d’agave e di rovi, indifferenti a questa guerra che si svolgeva accanto a loro. Indifferenti e fermi lì da secoli sembravano; spettatori di tutte le conquiste, riconquiste, invasioni e liberazioni che in quel teatro s’erano giocate. E sembrava che la loro guerra fosse un’altra, millenaria e senza fine, contro quella terra d’altri, feudi di baroni e soprastanti, avara e avversaria, contro quel cielo impossibile e beffardo”.
Intorno agli anni ’50, la classe contadina rappresentava la parte più sana della popolazione, perché la così detta “civiltà del benessere” l’aveva appena sfiorata. I contadini erano rozzi e superstiziosi, ingenui ma grandi lavoratori che conservavano ancora i costumi e le tradizioni degli avi; i vecchi, in particolare costituivano una fonte inesauribile di remote conoscenze.
In questo palcoscenico siciliano, in questo scenario antico, di vita reale, a cielo aperto, i “vinti” di G. Verga sono personaggi sempre presenti. Sono personaggi deboli, limitati da un ambiente ostile, dalle tradizioni da rispettare e dal bisogno e volontà inutile di liberarsene.
Sempre per la stessa ragione, l’incerto futuro ha dato un senso d’apprensione e di paura; forse a causa di ciò nella grammatica siciliana e nel parlare corrente non si usa il futuro. Per dire ad es. domani andrò, si dice: domani vado. Invece, molto usato è il passato remoto; per dire ad es. poco fa ho visto, si dice: “antura vitti” (poco fa vidi).
Anche per la casa, spesso costituita da una sola stanza, dove la famiglia coabita con l’asino e le galline, c’è un morboso legame affettivo, perché qui sono nati e cresciuti i propri avi, i cui “ritratti” sono appesi al muro quasi dei “lari”.
La famiglia e la casa, per le persone più povere, rappresentavano il fulcro, attorno al quale giostravano tutti gli altri interessi della vita. Tutto ciò che non interessava direttamente la propria famiglia, poco li riguardava, si diceva, infatti: “Casuzza to, fuculareddu to” – “E’ la to casa chi ti strinci e ti vasa!” – “Casa mia, casa mia, tu sì reggia e sì batia!” – “Casa mia, matri mia!”. Possedere una casa, avere un tetto sotto il quale ripararsi, e trovarvi ristoro tornando dal lavoro, era la massima ambizione per un lavoratore. Il contadino, in particolare, considera una grave disgrazia non poter morire nel suo letto fra le quattro mura di casa sua.
Chi possedeva “un paru di casi” (una casa) poteva considerarsi veramente fortunato. E’ giusto chiarire che il vocabolo “paru” in siciliano ha un significato molto generico; infatti, può significare anche un oggetto divisibile in tante parti: “un paru di carti, un paru di forfici, un paru di scarpi, ecc. Un paio si dice “na para” oppure “na cucchia”.
Dopo gli anni ’50, quando i figli incominciavano a lavorare e guadagnare, con i risparmi si cercava di costruire anche per loro quattro mura per ognuno di loro, fabbricando sopra la casa esistente o dividendola in due (la mezza casa). Difficilmente coabitavano genitori e figli sposati; anche allora più di oggi esisteva la proverbiale discordia fra suocera e nuora. Tante volte le abitazioni a primo piano rimasero incomplete o chiuse, poiché nel frattempo i figli emigrarono all’estero.
Oggi, con la globalizzazione e per una serie di circostanze, fra cui una cattiva amministrazione delle risorse territoriali da parte dei nostri governanti, tutta la concezione arcaica della “roba” si è disintegrata nel nulla. Oggi la terra e la casa non hanno più valore. Con il ricavo della vendita dei prodotti della terra non si riesce a coprire neppure le spese di produzione, mentre le case restano vuote perché i nostri figli sono emigrati in terre lontane.
Vito Marino