CASTELVETRANO – Ogni popolo dovrebbe effettuare, nel proprio territorio, la ricerca e la valorizzazione del folclore e delle tradizioni popolari, perché rappresentano una risorsa culturale ma anche economica.
Questa ricerca è utile a comprendere il presente, partendo dal passato, per conoscere le proprie radici.
Nell’era della globalizzazione, che uniforma usi e costumi di tutti i popoli, il ricordo delle proprie origini e tradizioni popolari è di primaria importanza, per poter mantenere una propria identità.
La ricerca del lontano passato è possibile, ma presenta tanti ostacoli, primo fra tutti l’analfabetismo che era molto diffuso fra la popolazione. Nel passato, la cultura si tramandava oralmente da padre in figlio; quindi solo le persone anziane sono ancora detentori delle nostre tradizioni, che possono oggi essere scritte.
Fino agli anni ’50 – ’60 del secolo scorso, la ricorrenza dell’Epifania era una festa religiosa, che commemorava l’arrivo dei “Tri Re di l’Orienti” (tre Re Magi) alla grotta di “Bettilemme” e che chiudeva tutta la festività e l’atmosfera natalizia.
Il presepe fatto in ogni casa era la più grande rappresentazione di tutta la festività natalizia. In quegli anni arriva l’albero di Natale e, volando arriva anche “la befana” che, con la scopa spazza via presepe e la festa dei Re Magi.
Quindi, l’Epifania, nostra festa prettamente religiosa, si insinua nella nostra festività natalizia come festa della Befana, trasformandosi in festa profana, figlia del consumismo e delle tradizioni di altri popoli,
Ebbene, fino a quegli anni, nel giorno dell’Epifania, dopo la messa solenne, si procedeva alla vestizione “di lu Bomminu” (del Bambino Gesù). Un rito umanitario per rendere felice un bimbo povero.
Dopo avere raccolto fra i fedeli vestitini e denaro, un bambino, figlio di una famiglia povera, veniva privato in sacrestia delle proprie vesti. Nonostante il freddo intenso, veniva ricoperto solo da una tunica azzurra e una coroncina di fiori in testa e, postagli sulla spalla una piccola croce, veniva presentato al pubblico, radunato in chiesa per la vestizione. Dopo avergli lavato i piedi, veniva vestito degli abiti ricevuti in dono. Al termine, il bambino veniva portato, in processione e con tanti doni alla propria casa.
Terminata la festività religiosa, nutrimento dell’anima, il giorno dopo, si respirava un’aria tutta diversa, infatti, iniziava la festa della carne, dell’attrazione terrena, del nutrimento e godimento del corpo: la festa “di lu Cannalivaru” (del Carnevale).
“Doppu li Tri Re, olè olè” (dopo l’Epifania, gran divertimento), così si diceva e già la sera stessa del sei gennaio si vedevano in giro persone vestite in maschera e iniziava il ballo nelle famiglie.
Con il Giovedì Grasso, iniziava la vera festa carnascialesca.
Fino agli anni ’60 circa, anni di magra succedutisi alla II Guerra Mondiale, il carnevale (del quale parleremo a tempo debito) era molto atteso da tutta la popolazione, per divertirsi e scrollarsi di dosso i lunghi anni di terrore vissuti durante la guerra e al ventennio di dittatura.
Vito Marino