“Lu pedi di pignu” c’è ancora?

di Vito Piazza

A Partanna c’è (c’era?) l’abitudine di mettere in pratica ciò che Oscar Wilde diceva del pettegolezzo: “Che fare del pettegolezzo? Diffonderlo. Diffonderlo!”. Questa abitudine in un certo momento della vita partannese ha toccato il top: e anche se la Repubblica Partannese è sempre stata in realtà un regno, il regno di Enzo Culicchia,  il pettegolezzo che si attribuiva tradizionamemte ai barbieri (perché spettegolare aveva una malferma traduzione in “furficiari”, da sforbiciare) in realtà abitava sotto l’albero del Pino della Villa: là negli anni sessanta e settanta quelli di “lu pedi di pignu” ebbero il massimo fulgore. Dettavano legge, avevano il mero e misto imperio. Precisi come Gesuiti, malevoli come i serpenti, informati come Berlusconi (le “notizie” se non c’erano se le inventavano) pronti a spegnere ogni piccolo fuoco o invenzione, ogni novità ma soprattutto ogni innovatore. E se qualcuno come il mai rimpianto e mai ricordato Nato Favilla – postino precario con vena poetica – esibiva le sue poesie scritte in grande a mano e depositate vicino alla statua di Garibaldi, scattava lo stigma: “Chissu è partuto”. Anche chi aveva idee diverse veniva bollato con “partutu”. E Nato, partì davvero: per sempre. Lo trovarono nudo, impiccato ad un albero. Di notte. Nessuno fu incolpato di istigazione al suicidio. Questo è il paese delle stelle e del vento. Pieno il cielo, le montagne, il mare lontanissimo eppur illuminato di striscio o ferito da bagliori di bianco oro. A Partanna c’è più vento che cielo. E il vento porta via subito la memoria, tanto che alcuni hanno identificato Partanna come il paese dell’oblìo. Del resto, laggiù, sotto l’albero di pino gli sguardi al cielo sono rari. Si preferisce guardare la terra – il pavimento di una strada maestra luogo di passi perduti di centinaia di maestri elementari disoccupati – perché per i paesani è più facile chinare il capo che alzarlo verso l’alto. Partanna mancava di teste diritte, di sguardi negli occhi, di occhi che guardano negli occhi. Partanna di notte viveva addormentata dentro le case d’inverno e d’estate accoglieva i passi lenti di coloro che passeggiavano e consumavano le mattonelle che dalla Villa portano alla chiesa del Purgatorio e da questa a quella. Si passeggiava e si continua a passeggiare per guardare e per essere guardati. Un tempo, nel tempo della civiltà della penuria, regnante sempre Re Enzo, era addirittura una passerella, una mostra di disponibilità per un eventuale pretendente per le donne, un lustrarsi gli occhi per gli uomini in mezzo a quel mercato che offriva bellezza o soldi o desiderio: tutte buone ragioni per sposarsi. Del resto la passeggiata rappresenta la maniera più naturale di camminare per diletto, perché essa dipende esclusivamente da chi passeggia. Passeggiare non è un semplice muovere il corpo: nella passeggiata si può unire il moto del corpo in base alle necessità dello spirito. E qui si passeggia in base ai ragionamenti che non sono esercizio di logica, ma forza di parole e metafore, di cose non dette, di silenzi interrotti – che il movimento interrompono – , dall’esplosione di frasi che sono conseguenza individuale di pensieri appena partoriti con il travaglio delle menti che si esercitano sul vuoto, su nuvole vaganti di contenuti mentali labili, incerti – non proprio pensieri – mossi dal vento che se si lasciano cogliere producono illuminazioni che meritano – a giudizio del parlante – di essere pronunciate magari per essere subito contraddetti con: “Minchiate!”. Lo sforzo di una elaborazione fatta da mille elucubrazioni mentali, da onde cerebrali che vanno e vengono, dal sudore della fatica di catturare qualcosa che assomigli ad una riflessione, eroici tentativi per “rem tene, verba sequentur, ” che una volta divenuti flatus vocis vengono sgonfiati come un palloncino dall’ago della lingua dell’interlocutore che buca ogni tentativo di costruire una logica: “Minchiate!”. Minchiate. Eppure un ragionamento è pur sempre un ragionamento anche se non è sempre discussione. Ma qui – a Partanna – esiste la discussione senza ragionamento, perché il ragionare è lungo e impegnativo, finisce con l’inizio di un altro ragionamento e dopo di questo un altro inizio e fine ancora, ancora, ancora. Quando si parla o comunque si interloquisce, quello che viene detto è un ritaglio dell’infinito ragionare che avviene dentro e il silenzio che prima o poi ne segue è solo il passaggio ad un parlare muto, la specialità dei siciliani. Il ragionamento è lungo, la discussione dura quanto si vuole che duri: c’è sempre un modo per concludere o con un proverbio cu futti futti Diui pirduna a tutti o con “Minchiate”. Ignava ratio. La ragione è pigra o catturata dall’annoiu. Va messa in sonno ad accumulare i mostri che giornalisti senza fantasia definiscono città belicina. Qualcuno ha visto il Belice? Qui l’illuminismo non è mai passato. Né a scuola l’hanno mai insegnato. Ma allora il Magistrale era la Fiat di Nakona, preparava maestri che emigravano al nord o professori di educazione fisica. Ancora oggi non ci sarebbero problemi per un antropologo o un sociologo per conoscere il tipo di lavoro prevalente tra gli abitanti: su tre che passeggiano due sono maestri elementari, il terzo è professore di educazione fisica. Oggi è diverso. C’è stato un terremoto che ha fatto cambiare anche l’accento della Valle: da Valle del Belìce a Valle del Bèlice, rispettando più i mass media che la tradizione. E il tedesco Schelle osservava che la passeggiata all’aperto avrebbe forse perduto il suo fascino qualora l’inquietudine fosse venuta a fiaccare quella sensazione di piacere in cui corpo e spirito si muovevano all’unisono, perfettamente simili al nirvana o al nulla. La paura di nuove scosse, di nuovi terremoti le avrebbe giustificate, anche se il filosofo tedesco si riferiva all’inquietudine per i rapinatori, per le bestie feroci. Dopo il terremoto la passeggiata ha cambiato direzione e contenuti, solo la forma è rimasta uguale. Ora la direzione è più breve, in orizzontale: si va dalla statua di Garibaldi alla vasca di granito che non sprigiona spruzzi se non nei giorni comandati dal sindaco. Lo scopo della mutua esibizione non è più il matrimonio, ma la disponibilità che prima era un mezzo e ora è solo un fine. La forma è uguale: esibire ed esibirsi, guardare ed essere guardati, spettegolare sapendo di essere spettegolati. L’albero del pino più grande, lu pedi di pignu per eccellenza, è sempre frequentato, anche se le panchine sono aumentate e i frequentatori diminuiti. Lu pedi di pignu, il pino secolare, incolpevole, contaminato, luogo di maldicenza, di satira, di comicità paesana, di creazione di miti e di scemi del villaggio. Era l’angolo dei pettegoli più cattivi, che hanno da dire e da ridire su tutto e su tutti. Prima soprattutto nei confronti delle mogli. Degli altri naturalmente. Le proprie intoccabili, di cui non si poteva parlare male perché come è noto, la moglie di Cesare deve essere al di sopra di ogni sospetto. Quelli del “piede di pignu” assumevano come scopo di vita la massima di Oscar Wilde sopra ricordata. Se passava una ragazza con il gelato in mano non avevano bisogno di parole. Si sgomitava e quel gelato diventava peccato, non certo di gola. Se passava una signora per bene e ben vestita invece (S) parlavano. Bedda! Beatu cu si la godi. So’ marito no? Comu no? È seria non vi pare? Sì, è seria quando stabilisce il prezzo.

Bisogna passeggiare senza inquietudine. Ma qui non ci sono bestie feroci. Ci sono pettegoli, chiacchieroni indiscreti e maligni capaci di trasformare quell’ombra di pino in pettegolume. Se passa una donna grassa che trascina la sua “epa” con fatica, la frase – “Bedda me, dunni accatti lu pani? – è d’obbligo. C’è crisi. La si avverte perché Partanna vive come Narciso, è una società narcotica capace di guardarsi allo specchio e trovarsi sempre bella come Narciso, come nel ritratto di Dorian Gray. Ma non sembra cambiato niente tra pubblico e privato. In pubblico si parla di sport di donne e motori. La crisi? Un affare privato. Sono importanti le “conoscenze”, l’amico, l’onorevole, l’ispettore, il direttore generale, l’amico degli amici. E qui, dove ancora regna la più cruda omertà, si rimane muti. Forse esagero. Ma qui si esagera con le feste. E tu chi sì megghiu? No. Sono andato via a 18 anni. Lasciando libero spazio a mezze calzette che fanno e hanno fatto il bello e il cattivo tempo in politica. Ma non credano lor signori che res derelicta res nullius. Partanna non è solo degli impiegati e dei servitori di Enzo Culicchia o di questo o quell’onorevole. E’ della gente che ha lavorato la terra “da suli a suli”. E’ di chi è partito perché povero e dignitoso. E’ di chi ha continuato ad amare questa città vivendo in Svizzera e con unico pasto le kartoffen e poi, tornato con un’auto di grossa cilindrata (magari in affitto) e la macchina fotografica al collo è stato irriso da quelli del “piede di pignu”. Res derelicta, res nullius. No. Facciamoci ritornare la memoria. Perché la memoria è qualcosa di più della somma dei ricordi. E vorrei che qualcuno – moltissimi lettori di “Kleos” – mi smentissero. Ma non con i soliti pregiudizi, il solito campanilismo stupido, ma con ragionamenti fatti di fatti. O è più comodo rimanere nascosti all’ombra del Pino?

 


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