Partanna, oltre ad essere una delle cittadine con più fossati della Valle del Belice (lo Stretto? No, le buche!) è anche la città dove si giudica di più. A Partanna nessuno indaga o cerca la verità vera: ci si accontenta delle dicerie; ogni testa è un tribunale, ogni abitante è un giudice. Che condanna. A meno che non si tratti di amici e di parenti che non siano serpenti: a questo punto scatta un luogo comune che non ha alcuna giustificazione giuridica né tampoco morale: “difienni lu to’ o tortu o dirittu” accompagnato dal finale ipocrita che è sempre lo stesso: “a un parmu di lu me culu”. Da questa pagina “graffiante” ci siamo proposti di distruggere, perché fanno male alla salute, quelle idee correnti (Beck le chiama “dominio personale”) che ci rendono la vita difficile. E’ un progetto ambizioso e forse un po’ presuntuoso, ma se solo fosse letto e meditato da 23 lettori (uno in meno di quelli invocati dal grande Manzoni) ci riterremmo soddisfatti noi cresciuti a pane e cipolla e non ad ostriche e champagne. Proviamo con un triplo salto mortale sapendo bene che il difficile non è avere idee nuove, ma liberarsi dalle vecchie. Gli ipocriti e gli osservanti delle tradizioni tout court sono esentati dalla lettura: per loro proseguire potrebbe essere un colpo fatale. Ebbene, siore e siori, andiamo a demolire un detto partannese che non interessa i dentisti, ma tutti. Il detto che qui è profondo convincimento interiore e a cui ognuno cerca di attenersi come fosse il primo dei comandamenti non scritto è “Cu s’avanta cu li so’ denti, un c’è nenti!”. Vado sul filo di un equilibrio precario sospeso tra una pala eolica e l’altra che, come è noto, rendono viva questa amena cittadina. “Proviamo anche con Dio, non si sa mai…”sono le parole di una bella e triste canzone di Ornella Vanoni. Ma stiamo in terra: la citazione dell’unico comunista rimasto in Italia, Papa Francesco, potrebbe aiutarci ricorrendo alla sua meditazione mattutina del 4 settembre 2014: perché vantarsi dei peccati? Di quali cose si può vantare un cristiano? Due cose: dei propri peccati e di Cristo crocifisso”. E una sola conta veramente: l’incontro con Cristo che cambia la vita dei cristiani “tiepidi” e trasforma il volto di parrocchie e comunità “decadenti”. Succede quando a prevalere sono i farisei e i “sepolcri imbiancati” che la nostra cittadina continua a produrre (Come mai il calo delle nascita non riguarda mai gli imbecilli?). A ispirare le parole del Pontefice è stata anzitutto la prima lettura della liturgia, tratta dalla prima Lettera di san Paolo ai corinzi (3, 18-23). Finisce con questa riflessione: «Nessuno si illuda. Se qualcuno tra voi si crede un sapiente in questo mondo, si faccia stolto per diventare sapiente, perché la sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio». Se la logica ha un senso, è peccato vantarsi “cu li denti” solo di fronte a Dio e non bisogna essere sacrestani o bigotti per capire che vantarsi di fronte a Dio è soprattutto inutile. Sa tutto. E dà al “vanto” il giusto peso: quella della necessità di essere amati. Ed è per questo che Paolo raccomanda a quanti predicano la parola di Dio: «Fatevi stolti». Li avverte di non mettere la propria sicurezza «nella sapienza del mondo». Quindi, prosegue l’apostolo, «nessuno ponga il suo vanto negli uomini». Tradotto: nessuno giudichi chi si vanta. Del resto, ha fatto notare il Papa, «anche lui aveva studiato con i professori più importanti del tempo». Eppure non si vantava di questo,«si vantava soltanto di due cose, e queste cose delle quali si vantava Paolo, sono proprio il posto dove la parola di Dio può venire ed essere forte». Infatti egli dice di se stesso: «Io soltanto mi vanto dei miei peccati» (cfr. 2 Cor 12,9: “mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo”. Se finiamo per dimenticare questo — ha avvertito il Pontefice — «diventiamo mondani, vogliamo parlare delle cose di Dio con linguaggio umano, e non serve», perché «non dà vita». È decisivo allora «l’incontro tra i miei peccati e Cristo». È ciò che avviene quando, nel passo del Vangelo di Luca (5, 1-11), Gesù dice a Simone di prendere il largo e di gettare le reti per la pesca. E Pietro, ha notato Francesco, gli risponde: «Ma abbiamo fatto tutta la notte e non abbiamo preso niente…Ma sulla tua parola le getterò». E così, ha proseguito, avviene «quella pesca miracolosa». Di fronte a questo fatto «cosa pensa Pietro?», si è chiesto l’ultimo e unico comunista, nonché Papa. Crede in se stesso, si vanta poi di avercela fatta. Il suo curricolo di pescatore si è arricchito perché solo credendo in se stesso avrebbe adempiuto alla parola di Dio. Ma cosa significa letteralmente vantare e soprattutto vantarsi? Vantare è un verbo. Vantare v. tr. [lat. tardo vanĭtare, propr. «essere vano», der. di vanus «vano», vanĭtas «vanità»]. 1. a. Parlare di qualche cosa in tono elogiativo, sia per dimostrare il proprio compiacimento sia con lo scopo di convincere gli altri o di suscitare la loro ammirazione; magnificare, decantare: v. i proprî meriti, la propria bellezza, la propria intelligenza (o i meriti dei proprî discepoli, la bellezza delle proprie figlie); v. le qualità di un prodotto, il potere miracoloso di un medicinale; mi vantava le sue immense ricchezze; vantava a tutti le grandi tradizioni del suo paese. b. Dichiarare, asserire (in buona o in mala fede) di possedere caratteristiche, doti, capacità che costituiscono (o si ritiene che costituiscano) un merito, un motivo di orgoglio o di superiorità: v. nobili origini o ascendenze aristocratiche, v. amicizie influenti o conoscenze altolocate; v. grandi possibilità finanziarie. In partic., v. un diritto, v. diritti (su qualcosa), asserire di averli: v. un diritto di priorità su un’invenzione; v. diritti su una proprietà, su un’eredità. c. Avere la gloria, o il diritto di ascrivere a propria gloria: una città che vanta molti illustri figli; una squadra di calcio che vanta già cinque scudetti. 2. Nel rifl. vantarsi: (che è quello che più ci interessa) a. Ritenere motivo di gloria per sé: mi vanto di essere uno spirito indipendente; si vantava di essere nato da povera gente; sono stato io a dirlo per primo, e me ne vanto. b. Asserire un proprio vero o presunto merito: chi può vantarsi di avermi sconfitto?; puoi vantarti di essere l’unica persona da cui accetto rimproveri; si vantava di avere scoperto lui la formula segreta; anche, dichiarare una propria capacità: si vantava di essere in grado di raggiungere la cima in meno di un’ora. Dunque, una prima considerazione semantica: il verbo VANTARE ha in genere un significato “socialmente accettabile” anche se moralmente discutibile: si VANTA di possedere un castello, si vanta di essere un imprenditore, si vanta delle sue proprietà. Non si capisce – o culturalmente non si capisce in questa nostra società legata ai quattrini – che la proprietà è un furto, come asseriva Proudhon, e neppure sfiora il cervello dell’ascoltatore passivo (useremo anche il termine stupido dato che pensa con una cultura se non con una subcultura non sua) che difficilmente dietro alla fortuna raggiunta c’è il lavoro e appare più probabile che facilmente ci siano delitti. VANTARSI nella sua forma riflessiva ha già in sé una classificazione: riflessivo viene da riflettere, e riflettersi rimanda l’immagine di Narciso (da qui la confusione che andremo a districare). Ma vantare sé significa innanzitutto autopromuoversi per chi non ha altri mezzi di promozione della propria immagine, del proprio valore, delle proprie esperienze. E se vantare appartiene alla categoria dell’AVERE, VANTARSI appartiene alla categoria dell’ESSERE (Fromm). Cosa diversa dal vantarsi è il millantare: quanti a Partanna non ricordano il partannese-tipo a cui venne chiesto: “Ma tu dove abiti?”, “A Melano” fu la risposta. E l’interlocutore: “In che via?” – “Viaaaaaa” – rispose scandalizzato il tizio – per via e via non me ne stavo a Partanna?: CORRSOOO, corso Lodi!”. Diceva la verità. Era il tono che lo faceva “millantatore” che lo portava ad amplificare la sua Milano (e il sacrificio dell’emigrazione) a fronte di una Partanna che giudicava inferiore. Il fatto che sottolineasse CORSO era la spia che esprimeva il suo impegno, il suo sacrificio, le rinunce che lo avevano portato a Milano. In altri termini era come se dicesse: se fossi rimasto qui, sarei stato un fallito. A Milano sono “riuscito”. Ma torniamo al vocabolario: c. Millantarsi: si vanta delle proprie imprese. Con uso assoluto, esaltare sé stesso, parlare di sé e dei proprî meriti in tono elogiativo: non mi piace la gente che si vanta; si vanta troppo perché gli si possa credere. Non faccio per vantarmi, ma…,frase frequente per introdurre, con vera o finta modestia, l’enunciazione di un fatto che costituisca merito: non faccio per vantarmi, ma io l’avevo capito prima di tutti; spesso, con intento umoristico, per dichiarare cosa di cui non si ha nessun merito effettivo, o addirittura indipendente dalla volontà (come nella satirica frase “non faccio per vantarmi, ma oggi è una bellissima giornata”, che chiude il sonetto «Il cavaliere enciclopedico» di G. G. Belli). Nell’ant. linguaggio cavalleresco, vantarsi, fare il vanto (v. vanto, nel sign. 3): la sera, i cavalieri s’incominciaro a vantare, chi di bella giostra, chi di bello castello, chi di bello astore, chi di bella ventura; e ’l cavaliere non si poté tenere che non si vantasse ch’avea così bella donna (Novellino). Nella forma attiva o rifl., seguito da compl. di termine (indicante la persona stessa o altra in cui onore si faceva la gara), serviva a introdurre il vanto che ciascun cavaliere faceva, equivalendo in taluni casi a «promettere, obbligarsi»: «O caro maestro, e voi che vantate al paone?». Rispose Ascalion: «Bella giovine…,sì mi vanto io per amor di voi al paone, che quel giorno che voi novella sposa sarete,…io con qualunque cavaliere…senza paura combatterò…»(Boccaccio). Scriveva Leo Longanesi di un tizio che probabilmente vedeva tutto come un bambino nello stadio dell’egocentrismo: è così egocentrico che se va a un matrimonio vorrebbe essere la sposa, a un funerale il morto. E’ vero che si sia tutti narcisisti, ma oltre a non esserlo tutti allo stesso modo esiste una differenza tra essere narcisisti e vantarsi. Si tratta di due atteggiamenti e comportamenti – soprattutto verbali, MOLTO diversi che comportano diversi stati d’animo, diverso DNA, diversi gli scopi. E se è molto probabile che un narcisista che smetta di esserlo, quando avrà bisogno di non essere solo potrà solo dire: sono guarito dal narcisismo. Adesso chi mi amerà? Ciò non succederà certo a chi si vanta o si è vantato per tutta la vita. Vantarsi non è praticare la vanità: questo “sentire” appartiene a chi si sente al centro dell’Universo: e allora quando si accorgerà che è l’universo che gira e lui urlerà la sua priorità dicendo il suo nome si sentirà rispondere con aria molto, molto distratta: “Non ho capito. Lei è il signor…”. E’ statisticamente provato che coloro che si vantano sono sempre disponibili nei confronti degli altri. Forse per dimostrare che la loro vanteria ha un fondamento morale, filantropico, forse perché ogni vantoso vuole apparire nella sua luce migliore. I modesti di solito non parlano. Per mille motivi: il primo è perché sanno che sono modesti in tutti i sensi, il secondo è perché in cuor loro si tacciono ma hanno dentro, nel cervello e nel cuore, un “homunculus” che ripete continuamente che a non vantarsi si finisce con l’essere davvero il centro dell’universo. Costoro – come ebbe a dire Bernard Baily – che quando la ricerca troverà davvero il centro dell’universo (la religione l’ha già trovato) saranno molto delusi nel sapere che non sono loro. Che male c’è a dire “Apprezzatemi adesso, eviterete la coda”? Se questa non è autoironia non stiamo parlando di concetti, ma di manicomio. Diciamo subito che la base per vantarsi e non vantarsi è l’immagine che si ha di se stessi. O ci si ama o ci si odia. In genere ci si percepisce – che altra parola usare? – o come vincenti o come perdenti. Non ho mai conosciuto uno che si senta alla pari nei confronti di se stesso. Ci sono, è vero gli schizofrenici. Ma allora saremmo non nella vita ma in un gioco dell’Oca. Perciò amare se stessi è sebbene possa essere – come dice Oscar Wilde – l’inizio di un idillio che dura una vita, ci si deve sempre chiedere: “perché accontentarmi di ciò che sono se posso essere qualcosa di migliore?”. Il “vantoso” lo dice e quindi si mette in gioco: è aperto, leale, autentico. Il modesto non ne ha il coraggio: si limita a pensarlo. Male che vede, rimarrà al palo: e gli impegni con se stessi non si vedono e non espongono certo al pubblico ludibrio. Il vantoso non ama esibirsi in pubblico e se è vero che oggi tutti corrono alla visibilità, in qualunque modo la si raggiunga – facendo i tronisti, le escort, le veline e quanto di più perverso mamma TV ci propone e ci propina – il vantoso non cade nella trappola perché ha una stima di sé molto alta. Il suo ragionamento è questo: se io non sono visibile è segno che non fa per me. Posso aspirare a stare più in alto: non sarò un uomo di successo, ma un uomo di valore. Il successo è alla portata di tutti. Il nostro tempo sembra essere il momento più alto e propizio ai narcisisti e agli esibizionisti. Il vantoso è un santo che si accontenta di morire non tanto in odore di pubblicità, quanto in odore di desiderio di essere migliore con l’unico scopo di potersi vantare. Del resto il vantoso intelligente sa bene che pur possedendo lo stesso egocentrismo di tutti non deve mettere mai questo pronome, sa che o non sa che “Io” in Sanscrito vuol dire capra. Il vantoso intelligente e autentico sa bene di essere sempre seguito, come il vecchio Friedrich Nietzsche da un cane che non si chiama Fido, ma Ego. Il vantoso intelligente è autentico e leale prima con se stesso e poi anche con gli altri e guardando gli altri, i modesti e gli idioti, sa che non ci sono gradi di vanità, ci sono solo gradi di abilità nel nasconderla. Proseguiremo se il buon Dio ci dà la forza e il Direttore di questo giornale la possibilità con le altre categorie più stimate: i timidi, i paurosi, i soprattutto i maldicenti che non capiscono la differenza tra vantarsi del proprio curriculo (verificabile) e millantare, cosa che fanno sempre senza saperlo. La modestia è un modo d’essere che ha la sua essenza nel non voler essere superiore agli altri e nel non dare loro disturbo. Il modesto non si pone mete troppo elevate, non entra in competizione, non pretende di avere grandi riconoscimenti. Non si mette in mostra, non opprime, non si vanta. Evita tutto ciò che ha a che fare con la superbia, la presunzione, la vanità. È misurato in ogni cosa, nel parlare, nel vestire, anche nelle emozioni. Non ha passioni violente, scriveva Alberoni quando scriveva cose serie. E Theodor Fontane rincarava: la modestia è sempre falsa, anche se è sempre ancora meglio di niente. Proseguiremo con le altre categorie di partannesi: i timidi, i paurosi, i modesti, quelli “che se c’ero dormivo”, quelli che si battono il petto in chiesa senza farsi troppo male…Tutto ciò a Dio piacendo e il Direttore permettendo. Grazie.
Vito Piazza