Introduzione
“In qual’epoca Saracina fosse stato edificato il Castello di Partanna non si sa e per quanta diligenza usato io avessi non ho mai potuto trovar orma: nemmeno d’una sola lettera araba non che di un millesimo”. Così il Sac. Mendolia introduce il discorso sul Castello Grifeo nella sua “Storia di Partanna”. La data di nascita del giardino, invece, è certa. A riferire sull’epoca della sua realizzazione è il not. Giacomo Rodo nella sua “Genealogia della Famiglia Graffeo”, secondo le memorie del not. Francesco Rallo, riprese dal sac. Mendolia nel citato manoscritto.
Il Principe D. Domenico I
Secondo le notizie riportate dal Rodo, a “pensare” e volere questo giardino è il 3° Principe di Partanna, D. Domenico I Graffeo. “Era questo Signore inchinatissimo alle fabriche e molto desideroso di vederne abbellita Partanna”. Figlio di D. Mario III e di D.a Maria Ventimiglia, D. Domenico entra nel dominio degli Stati paterni, ancor vivente il padre, nel 1641, allorché si sposa con D.a Elisabetta Marino e Graffeo, sua cugina, con atto del “Notar Cesare Luparelli di Palermo, a 13 9bre, 10^ Indizione”. Le cronache del tempo ce lo presentano in Partanna come Principe affabile e generoso; in Palermo, dove vive con ogni splendore, come nobile stimato dai suoi pari, d’ingegno elevato, abile politico, dalla parola facile e convincente.
Il Giardino
La notizia della costruzione del giardino viene data dal genealogista Rodo con un brevissimo inciso: “[D. Domenico] per animare i cittadini … formò un eccellente giardino nel Castello con statue di marmo di custosissimo prezzo che mandò da Palermo”. A tal proposito, il Mendolia annota: “In verità la disposizione di tal giardino di cui oggi altro non si osserva che lo scheletro, è amenissima. Egli è esposto al Mezzo giorno e difeso dai venti di Tramontana e Maestro; forma 4 piani ed ha una veduta di Mare e di terra sorprendente”. Da esso, infatti, la vista spazia sulla vallata del Belice fino ai monti di Sciacca e sulla spianata di Mazara da Selinunte a Trapani. Delizioso, ameno e incantevole risulta il giardino, anche perché pensile sull’attuale via “Dei Normanni”, realizzato grazie ad un mastodontico bastione, tuttora esistente. Nel 1657, D. Domenico, con atto del not. G. Vitale del 2/10/1657, ingaggia “i mastri Giovanni Corso e Paolo Samburgato a ricostruire lo muro di lu Castello di la parti di sutta con li cantuneri intagliati a modo di bastioni; conforme l’à designato Gaspare Denaro; cu patto di dare a detti mastri li mura vecchi sdirrupati, a tarì 4,10 ogni canna”. In tale occasione, il Principe provvede anche ad ampliare e a sistemare meglio il sito acquistando delle vecchie case appartenenti all’antico Convento carmelitano. Il 16 Luglio 1658, infatti, il P. Maestro Benedetto Maria Calandra riceve, nella qualità di Priore, ”once 16 quale prezzo di quelle case terrene, quali si sdirruparo per ingrandir lo giardino dello Castello”. A pagare il debito per conto del Principe Domenico Graffeo è il Segreto e Procuratore dr. Domenico Gargano. Ingentilito da viali, scalee, giochi d’acqua e statue, il giardino un secolo dopo viene citato nei suoi “Viaggi” dall’archeologo diplomatico scozzese Giacomo Hamilton, ambasciatore a Napoli.
Le statue del giardino
Secondo quanto tramandato dal genealogista Rodo, il giardino è ornato da statue di marmo. Di tali statue, in epoche diverse, ci riferiscono anche mons. Gioacchino Di Marzo in “Misc. Salinas” e Filippo Meli in “Archivio Storico Siciliano”. Le notizie riportate dai suddetti autori, riprese poi, più o meno acriticamente, da cultori di storia patria anche di un certo valore, presentano, però, non poche discordanze scadendo talvolta in ipotesi indifendibili e in un caso addirittura in una vera e propria “leggenda metropolitana”. In ogni caso, esse pongono almeno tre quesiti: quante erano e che cosa rappresentavano? Chi ne era stato l’autore? Che fine hanno fatto?. L’unica cosa certa è la loro esistenza. Tutti gli autori che più o meno estesamente parlano di tali statue pongono la loro fede su un atto notarile con cui D. Domenico incarica lo scultore Carlo D’Aprile di apprestare “dudici statui di marmora bianca di altezza di palmi 4 senza la soletta di sotto, cioè le quattro stagioni dell’anno, li sette pianeti, et lo tempo […] pro prezzo di once 100”. Più probante risulta, però, la notizia data dal sacerdote-storico Mendolia, il quale, come vedremo, ne ha fatto riferimento esplicito. Esistono, quindi, le prove documentali.
Numero e personaggi
Riprendendo le notizie riportate dal Di Marzo, lo Scaturro, ne “Il Giornale di Sicilia” del 19-20 Settembre 1922, sostiene che “Erano una volta nel giardino di quel castello, a decorazione dei viali, tredici statuine di marmo: una rappresentava Giovanni Graffeo capostipite di sua famiglia e primo barone, le altre dodici i mesi dell’anno”. Il Varvaro, a sua volta, riprendendo anche lui una notizia di seconda mano (F. Meli in Arch. Storico Siciliano), mentre ritiene errato che le statue raffigurassero Giovanni Graffeo e i dodici mesi dell’anno, riferisce di “dodici statue di marmo d’altezza di palmi 4 senza la soletta di sotto, cioè: le quattro stagioni dell’anno, li sette pianeti et lo tempo”. Statue marmoree, dunque, della misura di oltre m. 1,00 (1 palmo=m 0,258). Secondo il Mendolia, invece, “Le statue…erano in numero di 24: 12 de’ quali rappresentavano li 12 mesi dell’anno e 12 li deità maggiori”. Difformità, come si vede, di non poco conto sia riguardo al numero che ai personaggi rappresentati. A lume di logica sembrerebbe più verosimile la versione del Mendolia per esserne stato testimone oculare; anche se appare esagerato il numero in rapporto alle dimensioni del giardino e oltremodo gravosa per il Graffeo la spesa per la realizzazione ed il trasporto delle statue da Palermo a Partanna. E tuttavia, ciò che conta è che per oltre un secolo in detto giardino sono presenti delle statue, 12, 13 0 24 che siano, di cui si ha certezza documentale
Lo scultore
Riguardo allo scultore, ancora una volta il Varvaro richiama la tesi del Meli secondo cui a scolpire nel 1658, “per 100 once”, le dodici statue sarebbe l’insigne artista Carlo d’Aprile, Architetto del Senato di Palermo, cui si deve anche“l’ingresso nuovo a bugno al Castello in faccia alla strada Maestra”. Anche in questo caso, però, si naviga a vista per mancanza di atti certi. Lo stesso atto notarile, proposto dal Meli, cui fa riferimento anche Donald Garstang, (in “Giacomo Serpotta e gli stuccatori di Palermo”, Sellerio Editore, Palermo), riferisce sì di “dudici statui di marmora bianca”, commissionate dal Graffeo al D’Aprile, ma non dice espressamente che sono destinate al giardino di Partanna. Lo Scaturro, a sua volta, alla fine di un discorso sulle opere d’arte del Castello, riferendosi alle statue insinua l’ipotesi che: “né di alcuna di esse si sa se abbia avuto rapporto col Laurana”. Per cui, riprendendo tale accostamento, per la verità un po’ ardito, l’anonimo autore di una nota su Wikipedia passa dall’ipotesi alla certezza affermando sic et simpliciter che “Laurana…è stato l’autore delle statue che ornavano la vasta area a giardino del Maniero…13 sculture, una raffigurante Giovanni I Grifeo (sic), capostipite della Famiglia in Sicilia”. Ora, a me pare che l’attribuzione delle opere al D’Aprile possa tutto sommato apparire verosimile; mi pare invece da scartare l’attribuzione al Laurana, se non altro perché lo scultore dalmata lavora a Partanna (ma non per il barone Graffeo con cui anzi ha pessimi rapporti) circa duecento anni prima (1468) della realizzazione del giardino del Castello.
La fine misteriosa
Riguardo al mistero della fine delle statue, lo Scaturro, forte dell’autorità del Di Marzo, riferisce che “La prima (quella raffigurante il barone) fu ridotta in polvere nel 1854 per dare il bianco alla chiesa maggiore; le altre sono tutte scomparse, senza lasciar traccia”. Quasi a sottolineare una deprecabile grettezza mentale da parte del Principe o degli amministratori civici dell’epoca. Il Varvaro acriticamente aderisce alla ipotesi del Di Marzo precisando che “Due secoli dopo le statue, ridotte in polvere, dettero il bianco agli stucchi della Matrice”. Una notizia che ha tutto il sapore, come si è evidenziato, di una “leggenda metropolitana”, facilmente smontabile alla luce della testimonianza del Mendolia che nel suo manoscritto afferma che “Le statue di cui parla il Genealogista Rodo erano esistenti sino ai miei tempi e la sua totale distruzione fu circa l’anno 1770, governando nella famiglia D. Girolamo II Graffeo, 7° Principe di Partanna … Io ne conservo alcuni frantumi”. Come si è detto, il Mendolia scrive la sua “Storia …” nel 1829 e parla delle statue usando i verbi al passato, segno che a quella data le statue erano andate di già in rovina (“la sua totale destruzione fu circa l’anno 1770”), tanto da averne potuto reperire solo dei “frantumi”. Riguardo al “bianco della Chiesa Madre” vien da sorridere al pensiero che la polvere di una statuina di un metro d’altezza abbia potuto imbiancare le immense pareti della Matrice, tanto che il Varvaro abilmente inserisce una variante al testo del Di Marzo estendendo il fatto a tutte le statue e limitando la pittura ai soli stucchi. Ora, è vero che, a partire dal Serpotta, lo stucco viene arricchito con polvere di marmo, ma non già per essere pitturato, quanto per essere reso più compatto e più lucido. Ma, anche a voler ammettere la necessità della pittura marmorea, sarebbe stato così difficile reperire in altro modo quella materia prima? La verità è che nel 1770 (e questo vale ancor di più per il 1854) delle statue non esiste più alcuna traccia. Più che all’incuria o alla “barbarie”, è ragionevole pensare che la fine miserevole delle statue sia stata causata dalla scarsa consistenza della pietra usata. Tanto da far insorgere il dubbio che le statue in parola piuttosto che in marmo fossero realizzate in arenaria rivestita di stucco, com’era in uso a quei tempi anche per gli esterni. Ne sono testimonianza, d’altronde, le statue dell’Immacolata e di S. Francesco, tuttora esistenti, poste nelle due nicchie ricavate sui fianchi del campanile omonimo.
Nino Passalacqua