Eravamo ancora negli anni ’50 del secolo scorso. Stava per iniziare la civiltà del benessere e della tecnologia, ma la famiglia patriarcale continuava a seguire gli antichi usi e costumi della millenaria civiltà contadina. “Li picciotti” non avevano nessun diritto a parlare o a protestare nei riguardi delle persone adulte; i figli dovevano dare del “vossia” ai genitori e ai nonni e il fratello più piccolo doveva ubbidire a quello più grande e gli doveva dare anche a lui del “vossia”. Un proverbio in merito diceva:- “Li picciotti hannu a parlari sulu quannu piscia la addina”, cioè mai. Nelle discussioni familiari i figli non dovevano intervenire se non dietro consenso del padre. I figli dovevano abituarsi ad ubbidire al padre soltanto con il suo semplice sguardo torvo, viceversa botte da orbi A tavola la divisione dei cibi spettava al “padrone di casa” che, spesse volte, seguendo la legge istintiva della natura, prendeva per sé la parte migliore e più abbondante, dava la parte buona e sufficiente ai figli maschi ed infine quelle peggiori e più piccole alle donne. Questa realtà storica è confermata dalla seguente strofa:-
“Sugnu patri e sugnu patruni (sono padre e sono padrone)
aiu tortu e vogghiu raggiuni” (ho torto e voglio ragione).
Se ricordo con nostalgia la passata civiltà contadina, devo pur ammettere che allora si peccava di eccessivo maschilismo. Era il tempo di: “Padre padrone” di Gavino Ledda e del “Un delitto d’onore”di Giovanni Arpino. Allora la donna non poteva uscire senza il consenso dei genitori o del marito e in ogni caso mai da sola. Inoltre doveva sposare in maniera insindacabile l’uomo prescelto dai genitori, secondo una valutazione economica della dote. Dopo il matrimonio essa, per norma di legge, doveva seguire il marito e ubbidire ai suoi comandi. Tante volte doveva subire gli scatti d’ira del marito che, per ristabilire la gerarchia in casa, l’assaliva letteralmente con ingiurie e botte. Mancavano le manifestazioni affettuose, mentre le botte erano considerate necessarie ed elargite abbastanza, perché, come sosteneva un proverbio, “la muggheri è comu la atta, si l’accarizzi idda ti gratta”. Un altro proverbio diceva: “fimmini e scecchi, vastunati chi s’addrizzanu”. Molti mariti, che arrivavano a casa, già nervosi, cercavano come pretesto anche piccole mancanze, per picchiare la moglie. Eppure, “patruni e domini” (come si diceva nelle nostre parti) aveva un comportamento cavalleresco nei riguardi della donna altrui: le cedeva il passo e si alzava per cedere la sedia ad una donna.
Anche le norme di legge erano tutte a favore del sesso forte: in Italia, fino a qualche decennio fa, l’art. 144 del Diritto di Famiglia citava espressamente “Il marito è il capo della famiglia, la moglie segue la condizione civile di lui, ne assume il cognome ed è obbligata ad accompagnarlo ovunque egli crede opportuno di fissare la sua residenza”. Inoltre, nell’uxoricidio, l’uomo godeva di attenuanti, considerando “delitto d’onore” l’omicidio di gelosia. – inoltre la “ius corrigendi” consentiva al marito di potere picchiare legalmente la moglie, per correggerla. Fino al 1919 la moglie non poteva disporre dei propri beni senza l’autorizzazione del marito e non aveva credibilità nelle testimonianze in tribunale. Tuttavia lei continuava (o doveva continuare) ad avere rispetto e devozione per il marito, perché l’uomo era considerato la colonna portante della casa; un proverbio diceva: “Casa senza omu, casa senza nomu”. Inoltre, la donna raramente andava a scuola ed ancora non aveva diritto al voto; è stato il 02/06/1946 che la donna per la prima volta ha votato; allora ero bambino ma ricordo ancora la lunga problematica, sorta fra mia madre e mia nonna, su chi e sul come votare. Mio padre incitava a votare socialista, ma le donne avevano deciso di votare “pi lu Signuruzzu” (la croce della D.C.).
In una nota canzone popolare siciliana: “cummari Nina, cummari Vicenza”, il padre che aspettava la nascita del figlio, così si esprime:: “s’è masculiddu lu mannu a la scola, s’è fimminedda quasetta farà”. Queste poche parole riassumono tutta un’epoca, dove il maschio, posto al centro dell’universo, si mandava a scuola, mentre la donna (considerata un’incapace) doveva restare in casa a fare la calza; un proverbio in merito diceva: “la fimmina avi li capiddi longhi e la mirudda curta”.
Vito Marino
Vito Marino
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