PARTANNA – Il Lazzaretto era notoriamente luogo di isolamento per chi aveva contratto malattie contagiose, ma soprattutto un’area di segregazione dove nel passato erano tenuti appestati e colerosi in tempo di epidemie. Lo storico Varvaro Bruno ci dà notizia di una peste che sconvolse la Sicilia “a mezz’anno del 1575 e che durò sette mesi.” Il morbo arrivò dall’Egitto alle nostre contrade per via mare, insieme alle mercanzie portate a Siracusa e Sciacca, estendendosi gradualmente su tutta l’isola, ma già agli inizi del 1576 il flagello era definitivamente sconfitto.Nel nostro paese gli appestati venivano posti in isolamento in contrada Fontana, dove erano condannati a vivere in modo appartato, secondo quella pratica antica, che già il Manzoni descrisse con occhio pietoso di storico nel suo grande romanzo. Per addentrarci sulla vicenda dei “martiri del Lazzaretto” possiamo iniziare dalle informazioni di Francesco Saladino, fervente cultore della nostra storia, il quale ci riferisce che il 1849 fu per i partannesi un anno denso di avvenimenti luttuosi, soprattutto per via di alcuni fatti eclatanti che hanno scosso la città, rendendo sempre più aspro il clima sociale, già abbastanza teso e difficile.Ripercorrendo quel nostro passato risorgimentale si appura che l’11 marzo 1849 furono fucilati ventuno nostri concittadini, per vendicare l’assassinio di Natale del’48 di quattro soldati della Guardia Nazionale, avvenuto sulle sponde del fiume Belice. Furono giustiziati nella strada pubblica “delli Miracoli” in zona Fontana, proprio dove un tempo si isolavano coloro che avevano contratto il morbo. Per lo storico Varvaro Bruno, autore del volume “Partanna nel Risorgimento italiano”, le vittime furono il risultato della violenza borbonica, abbastanza cruenta anche in un modesto agglomerato urbano come il nostro, reputandoli martiri sacrificali, immolati per l’indipendenza del Paese. La Guardia Nazionale, contro cui si scatenò l’azione dei rivoltosi, era un’istituzione varata in quegli anni, alla quale aderirono 733 militi e 104 graduati, organizzata in sei compagnie, guidate da altrettanti comandanti, inoltre, la figura di Presidente del Magistrato Municipale, preposta a capo del comune, assunse dopo la Restaurazione l’attuale denominazione di Sindaco. Francesco Saladino, passando al vaglio l’inquietante pagina di storia locale, mise in dubbio le conclusioni a cui era pervenuto il Varvaro Bruno, che aveva reputato i ventuno morti del Lazzaretto “vittime acciuffate dalla reazione borbonica.” A conclusione della sua analisi ritenne che le fucilazioni avvennero sotto l’egida del Governo di Sicilia, ossia, per motivi diametralmente opposti a quelli espressi dal Varvaro, dal momento che non è stata mai rinvenuta una sentenza di condanna a morte emessa dal Tribunale di guerra; si deduce, pertanto, che i ventuno partannesi furono fucilati con tutta probabilità in quanto sospettati di simpatie filo-borboniche. Anche il nostro più rappresentativo poeta vernacolare Benedetto Molinari La Grutta ricordò l’episodio nella struggente lirica “A la campana di Lu Carminu”, soprannominata La Generala perché suonò per la sommossa locale del 1848: “foru li capi a passari ‘ngagghiati/e vintidui mureru fucilati.” Martiri del Lazzaretto è oggi il nome di una piazza del Nuovo Centro, incastonata tra via Rosario Di Stefano e viale Della Resistenza, tutto sommato a un tiro di schioppo dalla zona dove, quasi due secoli fa, “presumibilmente” caddero i martiri. Lo spiazzo appare un po’ scialbo e per certi versi non presenta alcun elemento architettonico degno di nota, nulla da spartire con il moderno decoro di tanti armonici spazi urbani, ma riposa sonnacchioso in un tratto decentrato di contrada Camarro. Alle giovani generazioni la denominazione non può far rivangare in alcun modo l’enigmatico fatto di sangue del 26 dicembre del ’48 né la susseguente rappresaglia dell’11 marzo del ’49, se davvero si sia verificata. La controversa evoluzione di questa pagina di storia locale e l’incertezza dei fatti che si sono succeduti ci portano oggi a meditare se non sia il caso di procedere alla rimozione dell’intestazione in attesa di un riscontro oggettivo, per fare piena luce sulla dubbia vicenda storica. Giuseppe Galasso è del parere che occorra andare a lezione dalla storia per capire chi siamo, invece, Francesco De Gregori in uno dei suoi testi musicali più noti ci ricorda che la storia siamo noi uomini, che non sappiamo quale futuro avrà il mondo in cui viviamo, seppur certi che ha avuto, come ciascuno di noi, un passato e una storia. La verità è che tutti abbiamo bisogno di storia, un’esigenza imprescindibile che nasce insieme a noi e alla nostra identità, suffragata giorno dopo giorno dal corso della memoria e dalla pregnante coscienza di ogni individuo.
Antonino Pellicane