Poesia e dintorni – La Metrica Prima Parte

di Tino  Traina

La metrica si occupa del complesso delle regole, leggi e  tecniche che vengono utilizzate nella versificazione, cioè nella composizione formale e ritmica dei versi.

Il verso è l’unità di misura sillabica del testo poetico ed ha nel numero delle sillabe e nella posizione degli accenti ritmici gli elementi fondamentali della sua struttura.

Proviene dal verbo latino “vertere”, che significa “voltare”, a sottolinearne il caratteristico procedere con il” ritorno a capo” prima che finisca lo spazio disponibile nel rigo.

Ne deriva quel bianco soverchiante della pagina nella quale i versi si dispongono incolonnati spesso su un lato, vero e proprio elemento visivo che conferisce al testo poetico un’inconfondibile forma che lo fa subito identificare e differenziare dai testi di prosa.

Il numero delle sillabe di un verso, nella metrica italiana, va da due (molto raro) a sedici (bisillabo, ternario, quaternario, quinario, senario, settenario, ottonario, novenario, decasillabo, endecasillabo, doppio quinario, doppio senario, doppio settenario detto anche “martelliano o alessandrino”, doppio ottonario).

Si parla di ipermetro e di ipometro per indicare versi che rispettivamente eccedono o difettano di una o più sillabe rispetto al metro prevalente in quel testo poetico, purché reali cioè non compensabili con artifici retorici, come per esempio per episinalefe che consiste nella fusione della vocale della sillaba eccedente di un verso con la vocale della prima sillaba del verso successivo che è regolare per numero di sillabe; o per sinafìa, quando l’intera sillaba eccedente del verso ipermetro, quasi sempre sdrucciolo, passa totalmente nel computo sillabico del verso successivo che è un ipometro.

Si parla infine di versi liberi per indicare, nella poesia contemporanea, quei versi che non obbediscono rigorosamente alle regole della metrica.

Poiché la denominazione del verso dipende dal numero delle sillabe e dalla posizione dell’ultimo accento tonico, è necessario procedere all’esatto conteggio sillabico e alla identificazione degli accenti.

Il conteggio delle sillabe deve tenere conto delle regole inerenti ad alcune figure retoriche del significante, di cui abbiamo già parlato nel capitolo della retorica, che riguardano la parola in sé (aferesi, sincope, apocope, dieresi, sineresi) o nel rapporto con parole contigue dello stesso verso (sinalefe, dialefe), o del verso successivo (episinalefe, sinafìa ).

Per fare un esempio che valga per tutti, prendiamo il primo verso del famoso sonetto di Foscolo “Alla sera”:

“Forse perché della fatal quiete”.

Se dovessimo considerarlo così com’è, poiché la parola “quiete” possiede il dittongo “ie”, avremmo un decasillabo,  cosa inaccettabile per un sonetto che notoriamente richiede 14 endecasillabi raggruppati in 2 quartine e 2 terzine variamente ma obbligatoriamente rimate.

Ecco allora che per effetto della dieresi, segnata dai 2 puntini sulla “i” del dittongo, quest’ultimo si scinde in 2 sillabe, pareggiando il conto.

Il verso foscoliano diviene pertanto: “Forse perché della fatal quïete”, che è un endecasillabo.

L’altro elemento che influenza notevolmente la struttura del verso è l’accento.

Per accento s’intende quell’accentuazione della voce che facciamo cadere su una o più sillabe della parola o della proposizione.

L’accento della parola si definisce tonico (che può essere primario e secondario, quest’ultimo può essere fisso o mobile quando si tratta di parole molto lunghe), grafico ( delle parole tronche, o omografe), fonico (per distinguere le vocali chiuse dalle aperte), sintattico o di frase (cade su una o più sillabe dell’intera frase), che nel verso costituisce l’ictus o accento ritmico che non sempre coincide con l’accento tonico delle parole.

A differenza della metrica classica, greca e latina, che viene definita quantitativa, in quanto basata sul numero di sillabe brevi e lunghe cui consegue una diversa durata quantitativa dei fonemi, la metrica italiana è detta accentuativa, così come in generale le metriche romanze, per il valore fonologico che gli accenti assumono nel determinare il ritmo del verso.

Esiste anche una metrica cosiddetta “barbara”che tenta di riprodurre in metri accentuativi la metrica classica quantitativa. (Odi Barbare di Carducci).

A dire il vero esistono tanti tipi di metrica, a seconda delle epoche, delle nazioni, delle correnti letterarie e finanche dei singoli autori.

Ritornando all’accento, esaminiamo più da vicino le differenze tra accento tonico, grafico, fonico, sintattico, ritmico, ecc..

Per accento, in effetti, deve intendersi quello tonico, quello cioè che ogni parola possiede avendo in sé una sillaba sulla cui vocale la voce insiste con maggior forza (sillaba e vocale toniche) rispetto alle altre (sillabe e vocali atone).

In base all’accento tonico le parole si distinguono in tronche ( povertà, bontà), piane (contènto, quadèrno), sdrucciole (tàvolo, nùvola), bisdrucciole (bròntolano, ìndicalo, ròtolano), trisdrucciole (fòderamelo, òrdinamelo ), con accento tonico rispettivamente sull’ultima, penultima, terzultima, quartultima, quintultima sillaba.

In italiano non sempre è necessario indicare l’accento tonico; ma quando si è obbligati ad indicarlo con un segno, si costituisce l’accento grafico, acuto o più frequentemente grave, delle parole tronche, omògrafe, di alcuni plurali, di molti monosillabi, per diventare accento fonico, acuto ( / ) o grave ( \ ), quando si vuole indicare il suono chiuso o aperto delle vocali “e ed o”( pésca di pescare con accento acuto e pèsca frutto con accento grave)

Quando leggiamo un verso ci accorgiamo che, pur possedendo tutte le parole di quel verso una loro sillaba tonica, poniamo l’accento, cioè l’accentuazione della voce, solo su alcune di esse che diventano pertanto sillabe toniche.

L’accento tonico di quest’ultime sillabe prende il nome di ictus o accento ritmico poiché, assieme alla punteggiatura e alle cesure, determina il ritmo del verso.

Le cesure sono delle pause secondarie all’interno del verso, che si aggiungono alla pausa primaria che è quella di fine verso cui seguirà il ritorno a capo. (continua)


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