“Psicoterapeuti improvvisati? No, grazie!”

PARTANNA – di Vito Piazza      Ho insegnato psicologia clinica per 7 anni alla II cattedra di Psicologia nell’Università di Milano il cui direttore era il grande Ettore Caracciolo, lo Skinner italiano. Insegnavo in quella che veniva definita “specialità” ed era ancora triennale. Ora è quinquennale a riprova della distanza abissale che c’è tra formazione di uno psicologo (niente più che un testista) e uno psicoterapeuta. Sebbene la legge Ossicini mi consentisse di essere PSICOLOGO ope logis, ho rifiutato: non si entra nell’intimo profondo e delicatissimo della gente se non si hanno grandi competenze e quelle doti di EMPATIA, LEALTA’ e AUTENTICITA’ che per Rogers (Terapia centrata sul cliente) vanno possedute al massimo dei livelli. Eppure molti magliari della psicologia si avventurano – per soldi o per voglia di dominio o per mostrare le proprie grazie – nel campo della psicoterapia pur essendo consapevoli che si tratta di esercizio abusivo della professione medica o di potere provocare danni irreparabili. Il mondo della psiche è pieno di imbroglioni e da qui la necessità di questo articolo per evitare agli ingenui di cadere nelle spire di truffaldini che con la scusa del benessere degli altri, si procurano solo il proprio di benessere. Siamo capaci di tener lontani i manipolatori attivi (quelli che sanno usare le parole per ipnotizzarci) ma cadiamo vittima spesso dei manipolatori passivi, quelli che sembrano non dirigerci, quelli che si abbassano a livello del “paziente” facendolo regredire fino al punto dell’amnesia infantile (3 anni, secondo Anna Freud) senza più essere capaci di riportarlo alla realtà presente, al qui ed ora in cui viviamo. Potrei raccontare centinaia di episodi, ma mi limiterò a fare un solo esempio riferendo – come al solito – una mia esperienza personale pubblica e facilmente documentabile. Ero direttore della scuola speciale per gravi handicappati psichici che aveva il nome di Treves-De Sanctis e che aveva fondato nel 1915 nientemeno che Maria Montessori. Per lunga tradizione quella scuola era riservata ad un direttore milanese. Ma ero il primo in graduatoria e i meneghini dovettero subire un ds siciliano, partannese per giunta: oggi Salvini lo avrebbe impedito. Ma tant’è. Con le “mie” maestre (erano tutte donne tranne tre maschi che operavano nei laboratori di falegnameria, stampa e cartonaggio) iniziammo un percorso di “recupero” di un ragazzo che chiameremo Gianpio. Anamnesi: il ragazzo aveva 11 anni ed era autistico (la definizione è solo per poterci capire). In pratica: era nato “normale” figlio di 2 insegnanti. A tre anni Gianpio vede una scatola di medicine che prendeva il padre e le ingoia tutti come fossero caramelle. Coma. Tre mesi. Ne esce distrutto e senza nessuna autosufficienza: non cammina che strascicando, non ha il contenimento degli sfinteri, non sa mangiare, non sa cosa sia il cibo dato che lo cerca nel cestino dei rifiuti. E’- mi si perdoni la crudezza dell’espressione – un’ameba. Che fare? Iniziamo da ciò che a Gianpio era rimasto non certo da ciò che gli mancava. Lo slogan di allora – valido tutt’oggi- era FAR LEVA SULLA PARTE SANA e attivare un percorso che gli facesse recuperare un minimo di survival skills, le abilità di sopravvivenza. Individuammo l’obiettivo nel contenimento degli sfinteri. Se Gianpio fosse stato in grado di “sentire” gli stimoli colon-gastrici avrebbe potuto essere portato in bagno prima che gli “incidenti” avvenissero. Tralascio i particolari, ma posso affermare (e avevo qualche maestra di Partanna) che eravamo sulla buona strada: gli “incidenti” che avvenivano 3 volte al giorno si erano ridotti a cinque a settimana. Una libertà conquistata, un benessere per Gianpio, per i genitori, per noi. Ma avevamo fatto i conti senza l’oste: la psicoterapeuta, una certa Lori che si dimostrò l’intralcio maggiore ad un pur semplice recupero di qualche attività vitale autonoma in Gianpio. Un giorno arrivarono nell’Ufficio di Direzione in via Colleoni 8 a Milano tre maestre. Mi dissero che Gianpio era regredito: rifaceva la cacca 3 volte al giorno come prima. Indagai. E venni a sapere che Gianpio veniva portato da questa “psicoterapeuta”: questa considerava – freudianamente – il fatto che facesse la cacca nel suo studio e durante le sedute come una sorta di regalo e un indizio di guarigione. Andai su tutte le furie: noi punivano (ritiro del rinforzo) i comportamenti problematici, mentre premiavano i comportamenti adattivi (rinforzi positivi) e avevamo ottenuto quei progressi mentre la psicoanalista remava contro? Minacciai di denunciarla e così smise di “curare” il nostro ragazzo che ben presto ritornò a migliorare. Questo per dire che se è vero che siamo tutti nevrotici, è sommamente vero che cercare di guarire affidandosi a ciarlatani che si autodefiniscono psicoterapeuti è un rimedio peggiore del male. La gente – scrive Anthony De Mello – non vuole guarire: vuole solo star meglio. E spesso, troppo spesso, c’è chi ne approfitta, a volte senza neppure il titolo. C’è una definizione che circola tra gli psicoterapeuti VERI (quelli che hanno il quinquennio DI SPECIALIZZAZIONE e che possono contare su un supervisore VERO): lo psicotico costruisce castelli in aria, il nevrotico li va ad abitare, lo psicoterapeuta passa a riscuotere l’affitto. Esercitare la professione di psicoterapeuta è un rischio e richiede doti non comuni. Oggi sembra che chiunque possa farlo. E la gente ci casca. Reputo mio dovere informare le persone fragili della città che amo a tenere gli occhi aperti. Ci ritorneremo. Perché il coronavirus può provocare una corsa verso “psicoterapeuti” improvvisati. Chi va da loro cerca il proprio paradiso nell’inferno degli altri. Dalla padella del covid 19 alla brace di psicologi per corrispondenza.


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