Ogni mese non possiamo descrivere esaustivamente, in quattromila caratteri compresi gli spazi, il bello e il brutto del paese da noi visitato. Preferiamo perciò privilegiare il bello, troppo spesso dimenticato, e lasciare il brutto alle lagnanze quotidiane della nostra insofferente umanità.
Questo mese il filo dei ricordi ci conduce a Mazara del Vallo, una porta sul Mediterraneo nei secoli rimasta sempre aperta. Qui approdarono tutti i popoli che fecero la storia della Sicilia: dai fenici ai romani, dai vandali ai normanni e fino agli spagnoli, qui avvicendatisi con fortune diverse, tutti hanno lasciato un segno nelle pietre e nei cromosomi di ogni autentico mazarese. Ma la civiltà più visibile, quella che ancora alligna negli occhi e nei solchi dei visi bruciati, è forse quella lasciata dagli Arabi. Approdati per la prima volta nell’827, questi fecero di Mazara la capitale delle lettere, del commercio e della tolleranza; deportati in massa per ordine di Federico II di Svevia, riapparirono nelle contrade mazaresi cinquant’anni fa in cerca di lavoro, rioccupando in breve tempo le case e i vicoli della casbah dei loro avi.
Da Piazza Mokarta con il suo suggestivo Arco Normanno, una finestra superstite del castello voluto dal conte Ruggero, ci incamminiamo verso l’antico centro storico con il pensiero al traffico caotico d’un tempo. Ma presto l’aria tranquilla ci rasserena: le strade ora sembrano appartenere a un’altra città, a un popolo che tiene molto alla propria immagine e alla civiltà dell’accoglienza. Piazza della Repubblica presenta il decoro seicentesco dell’imponente Cattedrale barocca e quello settecentesco del bellissimo Seminario vescovile, ma anche l’obbrobrio d’un moderno palazzotto che ne deturpa un lato. Percorriamo i vicoli della casbah, che hanno il fascino silente del mattino; i colori delle ceramiche alle pareti irrompono improvvisamente come volti raggianti di bambini, segnano le strade e ci narrano la storia dei cortili, che è la storia dell’intero paese. E’ difficile orientarsi nel dedalo delle viuzze deserte e pulite, ma un ragazzo tunisino ci guida alla meta, al porto canale.
Mazara, porto dove respiriamo l’aria intrisa di salsedine e di mito e dove i pescatori narrano le fatiche dell’esistere e le leggende di ragazze in carne che escono dalle acque; gli stessi pescatori che imprecano se accenni alla bellezza del mare. Eppure dal mare è arrivata un’invidiata ricchezza, da questo mare nostrum il piacere di viverne la mutevolezza, di respirarne la rabbia o la bonaccia lungo l’incredibile lungomare: da sempre un marciume di alghe e di pestiferi miasmi, è stato da poco recuperato, ci informano, grazie alla capacità e alla determinazione del sindaco Cristaldi; ora la sabbia finalmente è venuta alla luce e fino al Monumento al Pescatore, posto accanto alla chiesetta di San Vito, il lungomare si mostra come un bellissimo nastro di marmo che invoglia alla corsa o alla contemplazione del vasto orizzonte.
Vicino al porto canale, che si fa mare fra due ali scomposte di barche e di grossi pescherecci, il mercato del pesce è festa per gli occhi: tra grovigli di polpi e scorfani rossi che muovono ancora le branchie, s’alza un coro di voci di vecchia medina; qui tutto è crudo contrasto di luci e di ombre, ma anche spezia che inebria i sensi se ne respiri a fondo gli aromi che il vento porta dai cortili vicini. Poi, sempre curiosi del presente come specchio o riverbero di un passato lontano, raggiungiamo la chiesa sconsacrata di Sant’Egidio, meraviglioso scrigno arabeggiante che in sé racchiude una gemma di bronzo: il “Satiro danzante”, un’opera che ci dà la misura di quanto l’uomo possa creare con le sue mani e la sua anima. Guardatelo, guardate quel giovane con i capelli al vento e le labbra appena dischiuse e capirete, avrete più fiducia in tutto ciò che è Arte, poesia mai abbastanza riletta. Nel silenzio che regna tra le mura possenti ogni parola è superflua, perché qui anche le pietre dànno sapienza e speranza.
Sono le tredici e stavolta suggeriamo alla nostra golosa curiosità che è l’ora del pranzo. Così, in uno dei tanti ristoranti che la città offre anche all’improvvisato e squattrinato turista, mangiamo il pesce più fresco e più saporito del mondo. Con la promessa di tornare al più presto, prima di andare via diamo un ultimo sguardo alla scultura del mazarese Pietro Consagra “Gente che viene dal mare”: posta vicino all’Arco Normanno e davanti al mare africano fin dal 1964, ci ricorda il dramma delle migrazioni dell’uomo e il suo sempre vivo dolore, ma anche quel cordone ombelicale mai reciso tra tutti gli uomini di buona volontà.
Andrea Ancona