SANTA MARGHERITA BELICE- Una volta era il tufo delle case, era la polvere delle strade con lo sterco dei muli. Ora il paese di Santa Margherita di Belice, ricostruito dopo il sisma del 1968, ci guarda con gli occhi del cemento e dell’asfalto; occhi grigi che i rosa e i gialli dei prospetti non riescono a dissimulare; ma è da dire che gli antichi palazzotti dei notabili locali sono stati ben ricostruiti: nella piazza stanno dirimpetto, quasi con alterigia o altezzosa riverenza, all’inarrivabile Palazzo Filangeri di Cutò.
Il giorno del brivido è lontano, ma più lontano sembra il Paradiso del Principe: lo coglie l’intruso, l’estraneo che qui arriva, se appena si consegna a un sogno antico che sa di stalle e di sudore, di merletti e di ceri spenti. Così, qui dove le essenze arboree di quell’Eden incantato sopravvivono ancora all’incuria del tempo e dell’uomo, è facile perdersi fra le siepi di bosso, le araucarie e le fontane del giardino, ma è anche facile ritrovarsi nella penombra delle stanze del Palazzo (la zampa del Gattopardo ci guida nei meandri di pietra e di maioliche). I Filangeri qui s’incontrano immobili nei loro abiti di seta e ricami e, fra le note d’un valzer e le foto sbiadite di un secolo fa, sentiamo la voce ovattata dell’ultimo Principe, che nel Museo ci stordisce di nostalgia.
Usciamo. Abbiamo bisogno dell’aria che scompigli rimpianti e tristezze, ma siamo rapiti da un altro Museo, quello della Memoria, quello del sisma, dove non trovi ricchezze, ma fatiche e paure scavate nel volto degli uomini, quelli veri che ancora possiamo vedere sostare agli incroci o aspettare l’ultimo evento seduti al sole sull’uscio di casa.
Ci incamminiamo lungo l’arteria principale del paese. Contiamo una decina di bar, altri ce ne sono in periferia: non pochi per i 6.600 abitanti, che certo hanno risorse, il vino, l’olio, la vastedda del Belice, i fichidindia, che ovunque si esportano, ma soprattutto si esportano le braccia e le menti, a Milano, in Germania …; qui, come altrove nei Sud del mondo, l’emigrazione sembra la maggiore risorsa.
Quarantacinque anni son passati dal terremoto e, dove era la baraccopoli, vediamo ancora cantieri aperti per la ricostruzione delle case, case belle, case enormi fra cumuli di detriti, mozziconi d’asfalto, pozzanghere e fango. Un signore di mezza età ci dice che “quando arriveranno i soldi, qui ci saranno le strade asfaltate” e aggiunge, con malcelato orgoglio paesano: “qui sono venuti a cantare i più grandi cantanti italiani! De Gregori, Dalla, Minghi …”. Osserviamo che con quei soldi spesi per i concerti avrebbero potuto sistemare alcune strade e ci risponde che “ognuno ha i ricordi che vuole avere”. Ci dice proprio così.
Guardiamo le insegne: Bar Il Gattopardo, Gioielleria Il Gattopardo, Il Cenacolo del Gattopardo, Cantina Corbera, Caffetteria Filangeri …
Tutto fa riferimento al libro del Principe (ma non esiste una libreria che venda dei libri), così anche noi, arrivati alla Villa Comunale, non possiamo fare a meno di calarci ancora in quella realtà che fu del Tomasi e con lui passeggiare lungo il viale alla cui estremità troviamo un tempietto circolare con la cupola, dal quale ammiriamo il panorama “che è forse l’asse principale est-ovest della Sicilia”, ci dice il Principe. Ora è il verde che domina la grande vallata, ma ne immaginiamo le stoppie gialle dell’estate, quando l’arsura ci fa chiudere gli occhi all’ombra dei lecci. Vediamo grossi trattori scendere per trazzere pietrose, dove una volta barcollavano muli e carretti; ognuno si ferma nel suo rettangolo di terra scoscesa: è tempo di arare e poi di seminare, ma poi, poi non resta che risalire la china della fatica, darsi da fare con altro, con ciò che può dare l’arte di arrangiarsi, perché si sa, il grano non vale nemmeno una goccia di sudore del padre e del figlio. Riconduciamo gli occhi lungo quelli che ci sembrano filari di vigna, una distesa sconfinata di vigne che dà un assetto insolito al paesaggio, delimitato da cipressi toscani, qui trapiantati dall’uomo venuto dal Nord, che non ha dato soltanto speranze, ma anche un po’ di lavoro.
E’ l’ora del pranzo. Cerchiamo un ristorante, ce ne indicano nove: non pochi. Assaggiamo la vastedda, un formaggio ovino un po’ acidulo, buono; ottima la pasta con lenticchie e verdurine di campagna, poi costolette di agnello, frutta acqua minerale e vino. Ottimo anche il prezzo:
quindici euro. Contiamo di tornare.
di Andrea Ancona