25 gennaio 1968: un crollo immenso e un rumore assordante che sembrava la fine del mondo: era caduta la Chiesa Madre. Da un esempio di architettura ammirata da tutti, anche se i prof d’arte dell’epoca non davano spiegazioni su di essa, mentre descrivevano con dovizia di particolari il Duomo di Milano o la Certosa di Parma, non rimaneva che un gruppo di macerie. Finito il terrore, ciascuno guardava quell’ammasso di statue, di putti, di colonne come si guarda il chaos, un punto di caduta, un precipizio senza fine, una tragedia su cui era caduto per sempre il sipario della terra che tremava e mai più avrebbe potuto essere rappresentata: il teatro della fede era stato sepolto dalla sua stessa bellezza. Molti guardavano atterriti. Poi piano, con tristezza, con quella malinconia dolce e amara che sempre accompagna il presente che diventa passato. Molti – compreso chi scrive – erano stati battezzati là, in luoghi non solo sacri, ma pieni di quella bellezza scultorea dove il grande Serpotta aveva operato e reso immortale ciò che aveva toccato. Perciò la sensazione di aver perso le radici tra le macerie era il sentimento di un’appartenenza comune perduta, di un’acqua di sale che tante fronti aveva bagnato. Arrivarono i ben intenzionati: bisogna ricostruirla. Poi, nell’abbandono più totale, le macerie della Madrice divennero luogo comune.
Res derelicta, res nullius. Ciò che è abbandonato sembra non appartenere più a nessuno. Arrivarono i malintenzionati. E rubavano alla luce del sole. Poveri cristi, che volete che sia? Un ricordino, da portare a casa. E statue e teste e gambe rotte sparivano senza che nessuno avesse il coraggio di dire: che fai, ladro? Questa è la “nostra” madrice!. Qualche partannese – duole dirlo – fece arrivare dei turisti del nord. E permise o invitò addirittura a prelevare qualche souvenir, come se si trattasse di un po’ d’acqua della Fontana di Trevi. Dico questo perché una mia maestra di Milano, saputo che ero di Partanna mi disse: “ma sa che ci sono stata in ferie?”. E poi, con sguardo complice e omertoso, mi disse: “mi sono portato qualche ricordino della Chiesa Madre. Là era tutto abbandonato.” L’impulso di prenderla a pedate nel culo fu forte. Mi trattenni. E non solo perché aveva un culo così grande che avrei rischiato di fottermi un piede, ma per ciò che aveva fatto e me lo sputava in faccia quasi avesse commesso un atto di cui andare orgogliosi, tale da potersi vantare. Su 200 maestre fu l’unica che feci trasferire d’Ufficio, lontana da casa non senza averle riempito i giorni di lacrime e pene. Il credo. Me lo aveva mostrato, tirandolo quasi dalle viscere, Padre Arciprete. Era di ferro la scritta “CREDO” che padre Russo mi mostrava. Neanche il credo, la fede poteva trattenere: “chista è la casa di Gesù, quanto c’haiu je ci hai tu”. Ma davvero la comunità cristina è fondata sul furto? Quel CREDO di ferro che Padre Arciprete trovò in un incendio era sicuramente un segno divino. Che lo motivò a credere e a fare. Come si dice: in fiducia.
Non so quanti partannesi abbiano avuto il piacere di vedere questi benedetti progetti di “restauro” della Matrice: dal primo del 1978-83 all’ultimo del 2011-2014 passando per quelli intermedi degli anni ’90. Evidentemente non si usa presentarli al pubblico giudicato sempre dagli addetti ai lavori sempre ignorante. Mi faceva notare Paolo La Rocca che chi progetta e dirige il restauro di monumenti di alto valore storico ed artistico ha, se non l’obbligo legale, certamente il dovere morale di mostrare il suo lavoro cercando il confronto e il conforto del pubblico essendo pubblica l’opera e pubblici i soldi delle parcelle che percepisce. Ma se per la scuola esistono gli ispettori per la Sovrintendenza non esiste nessun controllo che non sia autoreferenziale. La Matrice non appartiene al Vescovo, al Parroco, al Sindaco o alla Soprintendenza ma alla Comunità partannese – A TUTTI NOI – ed è giusto che tutti se ne curino e siano informati del suo stato di salute. Qualcosa Paolo mi ha spiegato che riporto. Sono ignorante in materia, ma amo quella bellezza che Dostoevskij dice che salverà il mondo. E se tutto nasce dal problema dello smaltimento delle acque piovane dai tetti che, a seguito della prima ricostruzione della chiesa dopo il sisma del 1968, evidentemente non fu risolto o fu risolto in maniera molto approssimativa, tale problema può essersi verificato per vari ordini di motivi che qui possiamo solo ipotizzare: 1) pendenza delle falde inadeguata; 2) manto di copertura non adatto; 3) sistema di raccolta e di allontanamento delle acque piovane dalla fabbrica insufficiente; 4) interventi di manutenzione periodici scarsi o inesistenti. Tutto questo, e a causa della penetrazione delle acque meteoriche all’interno delle coperture, ha provocato nel tempo il degrado degli intonaci, il dissesto delle strutture e la rovina di molte opere d’arte. Tutti gli interventi che in questi anni si sono operati hanno riguardato sempre il medesimo problema che evidentemente non è stato risolto, non essendo stato affrontato il CUORE del problema, con i giusti strumenti che sono quelli tecnico-scientifici ma anche, e soprattutto, culturali. Questo perché alla base di ogni Restauro c’è un “giudizio di valore”. Come il chirurgo, prima del suo intervento, fa l’anamnesi del paziente ed effettua tutte le necessarie indagini, così il restauratore deve conoscere in maniera completa e approfondita l’oggetto del suo intervento. CONOSCERE PER TUTELARE è il principio che dovrebbe guidare i “restauratori”, ma la “conoscenza” è come il “coraggio di Don Abbondio”: se uno non ce l’ha non se la può dare. Pensa che si può diventare architetti da 110 e lode, pur essendo ignoranti in materia di teorie del restauro, caratteri stilistici e costruttivi dei monumenti e storia dell’arte, per il semplice fatto che non sono materie obbligatorie nel piano di studi delle facoltà di Architettura. Però si possono progettare e dirigere restauri. “Ti faresti operare da un chirurgo che non distingue l’omero dal radio o il fegato dal polmone anche se con il bisturi sapesse fare ‘ricami’?”, mi dice Paolo: se costui, quanto meno avesse letto B. Patera che le definisce “…ariose, pittoriche logge settecentesche che corrono lungo i fianchi, sulle navate laterali e che, con la loro ritmata sequenza chiaroscurale, alleggeriscono l’imponente massa della navata centrale…” non avrebbe certamente sovrapposto alla cornice, che queste logge chiude come un merletto, un muru di chiappi; ultima ferita inferta alla nostra Matrice e anche questa volta senza l’alibi della fatalità. E’ proprio vero: il caso non esiste. Se l’Arciprete fu motivato dal ritrovamento della parola “CREDO” proprio perché crediamo in Dio, non crediamo negli uomini. Non siamo sudditi ignoranti. Partanna è bella. E i partannesi non sono “babbi”. Solo distratti. Mobilitiamoci tutti. Per favore. Che i responsabili spieghino. Anche se – come piacerebbe a qualcuno – siamo babbi partannesi, ma non siamo cretini ed ignoranti.