L a Sicilia ad iniziare dalla fine del 1800 è stata una terra di emigranti. La mancanza di lavoro e l’impossibilità a sfamare la famiglia, sempre numerosa, ha spinto molti capi famiglia, con la morte nel cuore ed una rabbia repressa, ad emigrare all’estero, in tutte le parti del mondo, fino alle lontane Americhe e Australia. Essi, in terra straniera, hanno dovuto superare molte difficoltà; per inserirsi nella nuova civiltà hanno sopportando diffidenza e disprezzo; sono stati calpestati e sfruttati e non hanno più trovato i sapori, gli odori, i colori della terra natia. Sono partiti con delle vecchie valige piene d’illusioni e legate con fili di speranza, sopportando la dolorosissima “spartenza” (distacco) dai parenti e dalla terra natia. Così, dalla fine del 1800, c’è stata una consistente emigrazione verso l’Africa, che riguardò principalmente l’Egitto, la Tunisia, il Marocco, l’Unione Sudafricana e le colonie italiane della Libia e dell’Eritrea. Nello stesso periodo l’emigrazione verso le Americhe è stata di pari intensità; si è quasi esaurita durante il fascismo, ma c’è stata una piccola ripresa subito dopo la fine della II Guerra Mondiale. Con il miracolo economico italiano degli anni ‘60, è cessata quasi del tutto. Così tra il 1861 e il 1985, nell’arco di poco più di un secolo, sono state registrate più di 29 milioni di partenze (nel 1861 la popolazione italiana era 25 milioni di abitanti). Nei primi del ‘900 agli emigranti è stata attribuita la colpa di aver portato con sé la “mano nera”. E’ stato, infatti, don Vito Cascio Ferro, il boss siciliano emigrato negli Stati Uniti ad inventare il racket delle estorsioni: “Fateci bagnare u pizzu”, (il becco), dicevano gli strozzini della mala vita. Cessata l’emigrazione nelle Americhe, è iniziata quella diretta verso l’Europa centrale, come Germania, Svizzera, Belgio. Infine c’è stata la famosa fuga di cervelli all’estero. Si tratta di giovani laureati ricercatori, che non trovano occupazione nelle nostre università, perchè per motivi politici, economici, ma anche di scarsa lungimiranza da parte dei nostri amministratori, si è tagliata la spesa sulle ricerche. Fino a pochi anni fa, molti giovani siciliani, figli del benessere, sono emigrati in cerca di un lavoro più redditizio, perché ammalati di “aria del continente” (come direbbe il Martoglio). Scoprire nuovi orizzonti della vita è un istinto innato: “fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza”, ebbe a dire Dante. Essi lasciano la propria terra, dove sono attaccate le proprie radici, per la voglia di fuga, di evadere, di cercare una nuova ragione di vita più giusta, più ricca anche culturalmente. Spesso però si accorgono di trovare un mondo vuoto, frenetico che adora soltanto il Dio Denaro, privo di quella umanità e solidarietà che ancora si trova nei nostri piccoli paesi. Oggi la Sicilia, è diventata terra di immigrati, di accoglienza per i nostri fratelli provenienti principalmente dalla Tunisia, Algeria, Marocco e Libia. Qui, fra la gente del posto, essi cercano e trovano il riconoscimento della dignità umana cercata invano nella loro patria e un poco di lavoro umile, che i nostri figli del benessere rifiutano. Molti di loro, sfuggiti dalla guerra e dalle rivoluzioni, hanno trovato la morte proprio in quel mare Mediterraneo che ci separa, ma che ci unisce idealmente. Dopo gli inconvenienti di Lampedusa, per le indecisioni da parte del nostro governo fra accoglierli o “buttarli a mare” o “usare le leggi naziste” per come aveva proposto la Padania, oggi si soccorrono questi infelici fino alle coste libiche. Ma anche l’UE non ha mosso un dito per aiutare l’Italia in questa lotta di solidarietà.
Vito Marino